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Damien Hirst e la morte: un viaggio tra cadaveri di animali, mosche e teschi

1/12/2020

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Chi non si è mai interrogato sulla morte? Quanti non ne hanno mai avuto paura? 
La fine della vita è proprio il fulcro dell’attività artistica di Damien Hirst, uno degli artisti più provocatori e scomodi del nostro secolo. Nato a Bristol nel 1965, egli mostra fin da giovanissimo un forte interesse per l’arte e una fantasia fuori dal comune, capace di esorcizzare anche un argomento tanto delicato e intimo come quello della morte. Obiettivo del suo lavoro d’artista è proprio quello di far riflettere sull’inesorabilità del trapasso e sul suo essere parte naturale della vita umana, non da temere, ma da accettare e scongiurare. In un’intervista per «Euronews» egli riprende ciò che dice Samuel Beckett, ovvero che «la morte non permetta di prendersi un giorno libero» e sta proprio in questo la chiave per comprendere la sua visione: la fine della vita è un qualcosa di inevitabile e di imponderabile, che non ci permette di fare piani per il futuro, ma che, nonostante questo, dobbiamo mettere in conto.
 La sua riflessione inizia in seguito a un’esperienza avuta a 16 anni: era infatti il 1981 quando un suo amico, studente di Biologia, lo porta con sé a visitare l’obitorio di Leeds. Lì Hirst rimane affasciato dai cadaveri che aveva davanti e inizia la sua meditazione sul senso della vita e sulla sua brevità.
 La sua carriera artistica inizia subito con un’installazione mozzafiato, The Physical impossibility of death in the mind of someone living, del 1991, che presenta uno squalo tigre di 4 metri immerso in 848 litri di formaldeide. Allo squalo è stata iniettata nel sistema vascolare e linfatico anche una sostanza battericida per rallentare ulteriormente la decomposizione. Hirst vuole far notare agli spettatori come sia impossibile per i vivi concepire l’idea stessa della morte: egli ha catturato un instante preciso della fine del ciclo di un essere vivente, cogliendo proprio il momento in cui diventa ‘privo di vita’, un qualcosa che per l’uomo è psicologicamente diverso dallo stato di morte ‘vero e proprio’, a cui è collegato invece il decadere delle carni e la scomparsa del corpo. 
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Damien Hirst, The Physical impossibility of death in the mind of someone liv-ing, 1991 / Credits: www.damienhirst.com
Ma questo è solo il principio: è il 1994 quando Hirst presenta una nuova opera, A Thousand Years, composta da una teca di vetro rettangolare divisa in due ambienti comunicanti tra di loro. A destra vi sono delle larve di mosca nascoste in un cubo bianco, mentre a sinistra vi è la testa di una mucca, di cui le mosche possono nutrirsi per vivere, e una lampada antizanzare che probabilmente le porterà alla morte. Questa installazione sintetizza dunque il ciclo della vita, includendo la nascita, la vita e la morte: l’artista vuole costringere gli spettatori a osservare il percorso dell’esistenza, senza mezzi termini e astrattismi, soffermandosi in particolare sulla facilità con cui la vita si estingue.​
Foto
Damien Hirst, A Thousand Years, 1994 / Credits: www.damienhirst.com
Un’altra sua idea folle, ma geniale, è quella che ha dato vita a For the love of God, una ‘scultura’ realizzata nel 2007 composta da un teschio umano fuso in platino con denti veri e ricoperto di 8.601 diamanti per un totale di 1.106 carati. L’immagine in sé non è affatto nuova, infatti richiama le reliquie dei santi, arricchite per essere esposte ai fedeli con gioielli e pietre preziose nel periodo barocco. 
Nella stessa intervista per «Euronews» citata precedentemente si parla anche di questo teschio; gli viene chiesto il perché di questo titolo così particolare e l’artista spiega come in inglese questa frase assuma sia il significato letterale di «Fare qualcosa per l’amore che si prova verso Dio», sia quello figurato di esaltazione negativa, che potrebbe avere un equivalente italiano in «Per l’amor di Dio». Hirst stesso spiega come questo teschio «sia iconico e ironico [e abbia] entrambi i significati».
Quest’opera ci permette di negare la morte, non semplicemente di esorcizzarla perché al teschio, simbolo per eccellenza della fine, viene ridata la vita grazie alla capacità attrattiva che genera per la bellezza e la quantità di diamanti che lo ricoprono.
Foto
Damien Hirst, For the Love of God, 2004 / Credits: www.damienhirst.com
L’inquietudine e il senso del macabro sono ovviamente presenti nelle sue opere, ma non sono il fine ultimo; queste vogliono essere in realtà un semplice tramite capace di stimolare nello spettatore, costretto a immedesimarsi, una riflessione personale su un concetto immutato nel tempo. 
In conclusione, possiamo dire che ciò che affascina realmente Hirst non è tanto la morte in quanto tale, ma vedere come lo splendore oggettivo della vita e della natura debba fare i conti prima o poi con la sua fine, in quanto questa è parte naturale del suo processo di esistenza.
 
​Giulia Bendinelli

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