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I musei, la distanza e il futuro diseducato. Che cosa ci dobbiamo ricordare del ruolo dell’arte e di come non abbiamo saputo gestirlo

28/11/2020

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Siamo ad aprile, ancora all’inizio di questo confuso periodo che stiamo vivendo, quando «Hyperallergic», una delle più importanti testate internazionali online di arte, annuncia che il MoMA (Museum of Modern Art, New York City) ha notificato l’interruzione di qualsiasi contratto di lavoro con i collaboratori del dipartimento educativo. Il comunicato stampa annuncia che ci vorranno mesi, se non anni, per ripristinare il budget necessario alla piena riapertura di questo dipartimento di uno dei più importanti (e, probabilmente, in salute finanziaria) musei del mondo. Sorge spontaneo chiedersi che cosa resti di un museo, e in modo particolare di un museo chiuso, se mancano i soldi per progettare e diffondere un intento educativo intorno alle opere collezionate. Sono passati diversi mesi dalla primavera e dal primo lockdown, un ricordo ormai quasi sfumato di fronte a questa seconda ondata. Abbiamo di fronte una situazione analoga e, errata corrige, ci chiediamo se sia possibile trovare soluzioni diverse.
Sembra quasi allegorico pensare che, in un momento in cui stiamo assistendo ad un sacrificio collettivo (più o meno giustificato) sia del settore culturale che di quello educativo, anche un prestigioso museo assuma la stessa direzione. La scuola, quel luogo ormai più simbolico che fisico da cui i pulitici cercano di stare il più lontano possibile, spaventati dagli effetti dell’apprendimento prolungato o dalle classi già da tempo troppo affollate, è rappresentata dai media come simbolo di contagio e pericolo. La prima a chiudere e forse l’ultima che riprenderà a pieno regime (ed efficacia).
L’impatto della scuola, così come quello della cultura, è difficile da misurare in termini di produzione, profitto o PIL. Così è stato deciso che la scuola può aspettare, e può aspettare anche la cultura, vista agli occhi dei più come uno svago accessorio per chi al PIL ci pensa veramente, e cerca una distrazione a fine giornata. Come suggerisce Chiara Valerio in La matematica è politica (Einaudi 2020), in un sistema in cui si sceglie di dare priorità alla vita economica, non c’è spazio per la scuola. Di come il futuro lavorativo, sociale e persino democratico delle nuove generazioni possa subire gli effetti di questo periodo di crisi si è parlato molto, anche se forse non abbastanza nelle dovute sedi. Lo Stato non può però dimenticarsi della natura didattica che caratterizza, e deve caratterizzare, musei e istituzioni culturali, e di come siano nati e si siano sviluppati con una missione sociale ed educativa.

George Hein (“Museum Education”, A Companion to Museum Studies, Blackwell Publishing 2006) spiega che, nonostante collezionare oggetti, ordinarli e classificarli sia una pratica dalle radici lontane, possiamo far coincidere con l’avvento dell’Illuminismo il momento in cui questo esercizio ha cominciato ad essere adottato da enti pubblici e con intenti espositivi. Infatti, risale a questa epoca la diffusione di ideali di equità e uguaglianza nelle opportunità di apprendimento e fruizione del patrimonio artistico e culturale. Se gli obiettivi educativi dei musei pubblici hanno spesso avuto finalità politiche, soprattutto in tempi in cui era necessario formare una coscienza nazionale uniforme o motivare spinte imperialiste, secondo George Brown Goode (1851-96), curatore e amministratore presso lo Smithsonian Institution di Washington, i musei svolgono la funzione di raccolte di idee per l’educazione pubblica. È il Novecento che segna la più importante espansione del settore educativo sia nei contesti formali (la scuola) che in quelli informali, e tra questi i musei. La crescita delle scienze sociali stimola la diffusione di una conoscenza costruttivista ed esperienziale, in cui ogni spazio può costituire un luogo di confronto, arricchimento, discussione. In particolare, i luoghi dell’arte diventano accessibili, spazi di apprendimento senza età, distribuiti sul territorio e custodi della memoria culturale e sociale del nostro passato.
Questa riflessione sembra prestarsi in modo particolare al contesto italiano: il Belpaese a cui tutti invidiano le eccellenze storiche e artistiche, ma che negli anni ci ha tenuto a ripetere che con la cultura non si mangia. L’arte e la cultura sono documenti storici e sociopolitici che testimoniano chi siamo stati e che cosa possiamo diventare. Questa paralisi ci ha fatto capire che non siamo digitalmente educati abbastanza per poter imparare a distanza e che il sistema che abbiamo costruito, per poter tutelare un diritto, deve sacrificarne un altro. Mi piace pensare che ripartiremo dall’arte, per capire dove ci eravamo fermati e disegnare un nuovo spazio da cui ripartire.
 
Federico Rudari

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