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Il cammino dell'aragosta: iconografie distrutte e desideri sempre uguali dell’arte.

5/4/2020

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L’arte contemporanea, e in particolar modo l’arte del XX secolo, ha scardinato con ferocia tutte le modalità di rappresentazione tradizionali, modificandole e adattandole alle proprie esigenze. Come conseguenza le opere d’arte recenti risultano spesso, all’occhio del pubblico, astruse, troppo complicate, prive di senso. Quel che è peggio, insinuano la sensazione che chiunque sia capace di crearne una, e che il talento, la conoscenza e la bellezza ormai non abbiano più importanza nel meccanismo che determina la creatività. La vera arte insomma, ha rinnegato sé stessa e le sue regole, e si avvia a un lento declino.
Ma è davvero così? Per risolvere il quesito, può essere interessante analizzare lo sviluppo dell’iconografia di un animale spesso ignorato e bistrattato, e considerato degno d’attenzione soltanto in campo culinario: l’aragosta.
È facile notare la presenza di questo animale nelle nature morte, specie quelle della scuola fiamminga, tra XVII E XVIII sec. Ma la sua presenza solo di rado, a differenza di quello che si potrebbe immaginare, incarnava il gusto (questo grazie alla prelibatezza delle sue carni). Infatti i fiamminghi, forti di un modo di intendere la religiosità estremamente intimo e personale, erano soliti rappresentare scene di genere e nature morte come allegorie della vanità dei piaceri terreni. Una tavola imbandita, per un artista fiammingo del ‘600, non era mai solo un insieme di leccornie, ma un monito per chiunque decidesse di abbandonarsi alla vita mondana.
In questi scenari l’aragosta spicca come simbolo della resurrezione, a causa della credenza che le sue carni non possano decomporsi. Tale simbologia si imprime sulla rappresentazione dell’animale fin dal Medioevo, che rielabora in senso cristiano una notizia derivata da Plinio il Vecchio, che informava su come l’aragosta si liberasse del vecchio carapace acquisendone uno nuovo a ogni muta.
Foto
Jan Davidsz de Heem, Natura morta di frutta con aragosta (1650)
Nel significato attribuito all’aragosta, e in generale ai crostacei, non manca però una certa ambiguità. A causa del loro inspiegabile istinto di muoversi a ritroso, infatti, spesso questi animali venivano rappresentati come simboli di eresia, del demonio, e più genericamente del peccato. Ogni peccatore infatti può cambiare strategia di pensiero con leggerezza, senza freni morali a trattenerlo, così come l’aragosta sceglie con facilità se proseguire il suo cammino in avanti o all’indietro.
Nel ‘900 però arrivano le Avanguardie, e in particolare il Surrealismo, e il destino del nostro crostaceo sembra cambiare irrimediabilmente. Nel 1936 infatti Salvador Dalì realizza diversi esemplari dell’ormai famosissimo Telefono Aragosta. In quest’opera la sovversione umoristica dell’oggetto di uso comune sembra farla da padrone. Dalì si chiede infatti nella sua autobiografia come mai al ristorante non gli vengano serviti telefoni al posto di aragoste. Tali dichiarazioni porterebbero l’opera a essere inquadrata nel puro nonsense. Un insieme di simbologie culturalmente radicate, insomma, verrebbe completamente distrutto.
Foto
Salvador Dalì, Telefono Aragosta (1936)
Eppure, analizzando le vicende legate all’opera, si noterà come l’iconografia di questo animale venga sfruttata pienamente da Dalì, che semplicemente le permette di evolversi e adattarsi all’assetto della società novecentesca. Infatti, proprio grazie alla rielaborazione delle simbologie precedenti, l’artista iberico sceglie spesso l’aragosta come emblema della sessualità nelle sue opere. Ciò che era peccato diventa divertente allusione. Questo lo si nota già da una prima osservazione del Telefono Aragosta: il crostaceo è infatti rappresentato con la coda china sulla cornetta di un telefono, come nell’atto dell’accoppiamento. Il tema legato al sesso diventerà palese se si pensa che quest’opera è stata realizzata insieme all’iconico Divano Mae West Lips, opera sensuale per eccellenza, a costituire un nucleo tematico ben preciso per un unico committente, il mecenate Edward James.
È evidente che da Dalì in poi tutti i simboli attribuiti all’aragosta vengono diluiti in una miscela di continua sovversione delle regole di rappresentazione, e diventano sempre più difficili da riconoscere da parte di un pubblico che subisce una violenta accelerazione nella propria evoluzione culturale. Eppure persistono, anche se ben nascosti, e continuano a costituire la base su cui l’arte contemporanea caratterizza i suoi soggetti. D’altronde, senza la consapevolezza del decorso delle iconografie precedenti nessuna opera d’arte presente potrebbe funzionare, come dichiarato da Damien Hirst, uno degli artistar contemporanei più irriverenti e all’apparenza meno interessati a preservare metodi di rappresentazione tradizionale.
Intanto l’aragosta prosegue il suo cammino nel XX secolo fino a diventare talvolta l’anello mancante tra soggetto mistico e feticismo decorativo.
Foto
Pietro Annigoni, Aragosta (1965).
Nel recentissimo periodo si riscontrano due strade quasi opposte percorse dagli artisti contemporanei. Da una parte troveremo un prepotente desiderio di ritorno all’ordine causato dagli effetti dell’era della post-verità, con una riscoperta dei canoni iconografici tradizionali, che convivono straordinariamente col senso profondamente mutato di intendere la religione, la morte, il peccato, e l’arte. Ne è un esempio lampante l’aragosta umanizzata dell’artista italiano Phillo Cremisi, appartenente alla sua serie Religio Animalium, del 2011. La serie, composta unicamente da soggetti animali, si presenta come un’originalissima rivisitazione dei bestiari medievali, influenzata dai metodi di rappresentazione propri della Street art e del Pop surrealismo. Qui possiamo osservare il nostro crostaceo circondato dall’acqua e dal fuoco, gli elementi indispensabili per cucinarlo. Le sembianze umane e i fattori legati alla sua morte rendono palese l’associazione col martirio cristiano. Senza le armi messe in campo dall’uomo, dunque, l’aragosta non morirebbe mai. Ed ecco che, insospettabilmente, l’animale torna a essere simbolo di resurrezione.        ​
Foto
Phillo Cremisi, aragosta tratta da Religio Animalium (2011)
Sul versante opposto alcuni artisti profondamente influenzati dalla Pop art hanno portato alle estreme conseguenze l’intento parodistico, con effetti apparentemente insensati ma in realtà colmi di significati stratificati. All’apice di questa tendenza troviamo l’aragosta di Jeff Koons, icona del suo coloratissimo mondo di soggetti che ricordano enormi gonfiabili giocattolo. 
Foto
Jeff Koons, Lobster (2007- 2012).
I baffi all’insù di questo crostaceo richiamano volutamente quelli di Dalì, e l’opera si presenta come un prepotente riferimento al Telefono Aragosta, come parodia di una parodia. L’aragosta rappresentata come un gonfiabile da spiaggia, simbolo della leggerezza e della vanità dei prodotti dello sfrenato consumismo odierno, destinati a essere usati e a perire dopo breve tempo, è in realtà una pesante statua in ferro smaltato, che incarna il desiderio mai mutato dell’arte: sopravvivere alla prova del tempo. L’illusione creata da Koons è quella di un carapace effimero, che però ne nasconde un altro, molto più resistente, che porterà il nostro crostaceo a nuova vita. Nella continua distruzione dei suoi limiti l’arte contemporanea mantiene immutate le proprie aspirazioni, e non fa altro che liberarsi di schemi rappresentativi per rinnovarli mantenendoli uguali a sé stessi, proprio come l’aragosta, che si disfa della sua vecchia corazza per continuare a risorgere.
- Dionisia Matacchione

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