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La semiologia del corpo e la poesia

3/3/2020

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         “Domani mi vestirò mi laverò la faccia
            per quel che mi riguarda uscirò di casa
            e mi troverò in un contesto medioevale
            che ribolle di cavalli e cavalieri principesse
            non ne voglio
 né languidi suicidi
            voglio spade lotte omicidi”


Comprendere la semiologia del corpo, che sia verbale o non verbale, aiuta a comprendere i significati di alcune azioni umane, e quindi la nostra società. Un artista per «naturalizzare» e dare un proprio impegno «culturale» alla sua opera, dovrebbe saper padroneggiare tre importanti studi: la semiologia, la psicologia e la filosofia; di qui si aprirebbero poi tanti altri studi quali la psicanalisi, la semantica, la sociologia e via discorrendo. 
Nell’arte del linguaggio scritto, la semiologia viene ovviamente descritta a parole; lo studio semantico e lo studio semiologico sono in effetti in stretto contatto. La semiologia, in senso esteso, studia i segni, occupandosi prevalentemente, nello studio specifico del corpo, del linguaggio verbale e non verbale; la semantica invece studia la pa­rola come significato, la lettera e il testo. I principi di descrizione semiologica di angoscia e nichilismo nell’immagine possono essere molto simili nella parola, dunque nella descrizione semantica. 
Ci sono due modi, a mio vedere, per descrivere dal punto di vista della semiologia del corpo, tali concetti nella scrittura: il «didascalismo» e l’«iper-astrattismo». 
La poesia di Salvatore Toma (1951-1987), sopra presentata, rappresenta al meglio ciò che intendo per didascalismo. L’opera esordisce con “Domani mi vestirò/mi laverò la faccia”. Da un’azione comune come il vestirsi e il lavarsi il viso, conoscendo l’autore e l’anno di pubblicazione di “Forse ci siamo” (1983), la silloge in cui è presente la poesia, si potrebbe dedurre che tali azioni potrebbero essere considerate sempli­cemente purificatorie e di rinnovamento. Vestirsi e lavarsi, come iniziasse una nuova giornata, tro­vandosi però “in un contesto medioevale/che ribolle di cavalli e cavalieri”, una vita nuova, una realtà impossibile per il poeta, dunque metafisica e onirica. Il poeta sogna un’altra vita, in poche parole la morte (morì suicida due anni dopo). Infine “voglio spade lotte omicidi”; si lascia intendere una certa opposizione da parte dell’autore. Verso chi? Verso la propria società. Questo è ciò che intendo per didascalismo. Nessuna accezione negativa, è solo un modo per rendere chiari dei gesti, lasciandoli immaginare al lettore come fossero delle fotografie o frame di film. Si utilizzano parole comuni, contesti generici e immediati per l’immaginario collettivo; i concetti vengono espressi in modo sì simbolico, ma facilmente intuibile, non in maniera particolarmente ermetica. 

             “Parlavo vivo a un popolo di morti. 
                Morto alloro rifiuto e chiedo oblio.” 

Anche la poesia di Umberto Saba (1883-1957), fa parte delle ultime scritte dall’autore (Epigrafe. Ultime prose 1959), quindi ci troviamo in un contesto di acuta riflessione sulla vita, sull’esistenza e sull’Io. L’astrattismo di questi versi, sta nel lasciar immaginare al lettore il gesto o l’immagine che per causa-effetto determina una frase come “rifiuto e chiedo oblio.” Immaginiamo il poeta pensoso seduto su di una poltrona, con la testa poggiata sulla mano chiusa a pugno; chiuse le palpebre, pesanti, per diversi secondi, produce respiri profondi e ha lo sguardo diretto verso il basso. La parola «morte», evoca spesso un sussulto nel lettore, che leggendola si immedesima nell’autore, evidentemente fru­strato e angosciato. Nell’iper-astrattismo si tratta di scarnificare la parola, come faceva benissimo Ungaretti, per arrivare alla sua essenza semantica, perché nel suo modo minimalistico riesce bene a raffigurare nell’immaginario collettivo dei gesti che rappresentano a loro volta sentimenti ed emo­zioni. 

Nella poesia è complesso costruire un’immagine che non sia banale; è complesso, rispetto al cinema per dire, rappresentare uno studio di semiologia del corpo senza cadere nell’insignificante. Nell’arte figurativa di per sé è più comune uno studio del corpo, poiché si è in contatto con la figura umana visivamenteb nella gran parte dei casi. 
In ogni caso, il nihil umano, come raccontava Leopardi, o Shopenhauer, è una mancanza, il desiderio di qualcosa, per l’appunto, il vuoto. Quindi ogni volta che verrà detta o scritta una parola di meno, e un gesto in più, si saprà di cosa si sta trattando.

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-Andrea Ferraiuolo


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