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Luigi Ghirri. Un’anticipazione del deserto urbano di oggi. Viaggio attraverso gli scatti del maestro emiliano. Che oggi sembrano premonizioni

29/3/2020

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Questi giorni ci hanno resi partecipi di un paesaggio mutato, un’Italia spiazzante, silenziosa, antimonumentale. Un’Italia che trova similitudini con l’opera del fotografo emiliano Luigi Ghirri (1943-1992), sia da un punto di vista figurativo, sia conducendo una riflessione più ampia sulla desolazione dinanzi alla quale ci troviamo, restando comunque aggrappati alla speranza donataci dalla luce e dal colore.
Foto
Pescara 1972, Luigi Ghirri
A marzo inoltrato la città è già calda e dorata da ridenti raggi, ma Roma non è mai stata più taciturna. Le sue arterie funzionano ancora: automobili solitarie e autobus vuoti si apprestano al semaforo, ma una volta scattato il verde, questa piazza una volta gremita di urla e rumori di clacson si spegne, lasciandoci solo la visione di qualche panchina vuota. Quella che fino a qualche giorno fa era una metropoli chiassosa si è trasformata in un paese di provincia come tanti in un’infinita domenica pomeriggio. L’atmosfera letargica è spezzata solo di tanto in tanto da qualche passante che attraversa la strada di fretta, tenendosi un lembo di sciarpa stretto a coprire naso e bocca.
Si direbbe che l’umanità intera sia scomparsa, quasi non si riesce a credere che nessuno, con questo bel tempo, sia fuori a goderselo. Questa perpetua visione mi ha fatto più volte tornare alla mente una serie di fotografie dell’emiliano Luigi Ghirri, analogiche a colori di una spiaggia desolata. Si trattava di vedute di un’area giochi per bambini lasciata a sé stessa.
Foto
Lido di Spina, Luigi Ghirri. Dalla serie Kodachrome
Ghirri concentrava il suo obiettivo sui dettagli dimenticati, su quell’Italia fisica e sostanziale che solo chi la vive conosce, un paese invisibile fatto di piccolissimi dettagli, oscurati dai monumenti e dalle vedute da cartolina dei fratelli Alinari, che avevano contribuito a tessere un’immagine turistica e ripulita del nostro paese; la sua era quella stessa Italia che ora, per forza di cose, siamo portati ad osservare con più attenzione, e forse con più amore. I monumenti di Ghirri erano il Po ed il suo delta in tutti i suoi anfratti, le distese infinite di campi della Pianura Padana e le nuvole passeggere che la attraversano. Ma anche le piccole piazze provinciali, i loro portici, le strade. Questi furono i luoghi che lo videro nascere, e per cui Ghirri sviluppò un attaccamento quasi viscerale, al punto da essere protagonisti di gran parte delle sue tante serie. Nel 1984  ideò e contribuì al volume fotografico Viaggio in Italia con scatti che descrivevano un paesaggio scarno ma eccezionalmente ricco di significato. La sua ricerca, anzi, quello che sembra il cadere naturale del suo occhio sul particolare desueto o sull’istante fuggevole ci porta alla scoperta del punctum con una semplicità assoluta: la sua fotografia diventa allora un vaso di pandora denso di significato e di spunti di riflessione. Il dettaglio diviene l’inconsueto e sacro protagonista di ogni sua opera.
FotoValli Grandi Veronesi, Luigi Ghirri

Nel 1990 Ghirri partì con il collega Gianni Celati a bordo di un autobus azzurro che attraversava le campagne emiliane, alla ricerca di quei piccoli particolari che rendevano la sua opera ricca. Ne uscì un mediometraggio chiamato Strada provinciale delle anime, dal nome della strada che seguirono lungo il loro tragitto, ammettendo di seguirla “[…]  forse per il suo nome... oppure perché non portava da nessuna parte”. Il risultato è lo spaccato di un paese a molti ignoto, un’Italia post boom economico fatta di piccole cose, distanze, tempi morti.
Ghirri sembra seguire le orme di un certo neorealismo zavattiniano, quel neorealismo attaccato alla terra, alle persone, ai lavoratori. A tratti troviamo anche una certa similarità tra lui e Antonioni: gli scatti della Centrale elettrica di Ostiglia fanno pensare quasi istintivamente ad alcuni fotogrammi di Deserto Rosso.

Foto
Raramente vediamo persone nei suoi lavori: ancor più raramente possiamo osservarne le espressioni. Nella sua fotografia all’essere umano è concesso di osservare da lontano, come in certi dipinti romantici. Le piazze sono vuote, le persone fuggevoli: è un’Italia che nessuno aveva mai visto; gli stessi italiani sono troppo abituati ai ritratti festosi del Bel Paese per ricordarsi che il suo cuore pulsante è spesso fatto di desolazione, silenzio, abbandono. Un abbandono che Ghirri comunque non lascia alle tenebre, ma dipinge di colori tenui. Fu infatti uno dei primi, assieme allo statunitense William Eggleston, ad usare il colore nei propri scatti. 
Il colore attenua la desolazione, la malinconia di certi paesaggi. Ad esso è aggrappata la memoria di ciò che si era, ed il pensiero di ciò che si aspira ad essere. L’oro di quella spiaggia deserta sa di aspettare orde di bambini; il verde campo ingiallisce davanti ai nostri occhi e la neve lungo il viale di quella parrocchia sembra già sciogliersi sotto i primi raggi di sole. 
La fotografia di Ghirri si pone a metà tra quel che vi è impresso e ciò che siamo sicuri stia per accadere. Ci dona un silenzio da riempire, che in questi giorni di attesa diventa un’oasi di speranza.

- Aurora Angeloni​
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