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Siamo all’inizio degli anni ’60 quando Lamberto Pignotti fissa le premesse di una nuova stagione poetica, sfidando i dettami del logocentrismo e raggirando le norme di un’editoria manifestamente conservatrice. L’impegno artistico e critico dell’esponente di punta della poesia visiva non rifugge infatti da implicazioni di carattere etico o politico e pone l’accento sugli eventi della contemporaneità, inclusi quelli più complessi. A distanza di un cinquantennio la sua opera non cessa di mimare la realtà, arricchendosi di grado in grado di nuovi spunti interpretativi volti a decrittare i fatti più brucianti dell’attualità. Sarebbe impossibile cogliere la portata delle scelte neo ideografiche e poetico visive dell’autore se si prescindesse dalla rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa avviatasi agli inizi del Novecento e tutt’ora in atto. Come è noto, da quando la lingua della pubblicità si è saldata a quella della tradizione poetica, il confine tra i due ambiti espressivi del linguaggio è diventato alquanto labile, rivelando che oggi come allora appare necessaria una rivitalizzazione delle forme artistiche di consumo. È proprio in questo sfondo che Pignotti si propone di riscattare la parola o l’immagine massificata dalla carenza informativa che le è propria allo scopo di ri-immetterla in circolazione in vista di un accrescimento di significato. Per perseguire tale obiettivo egli ha condotto operazioni ad elevato tenore sinestetico, privilegiando le funzioni che stanno al di là del linguaggio verbale e servendosi del potenziale insito nei cinque sensi. Il protagonista della sua «poesia» è l’uomo tecnologico visualizzato attraverso il linguaggio neovolgare della pubblicità, dei rotocalchi e delle riviste di consumo; basti pensare ai tanto discussi Chewing-poems alias «poemi da masticare» (collocabili nel ben più ampio filone della eating poetry) che alla loro prima apparizione dovettero innescare non poche polemiche sia da parte della critica, che da parte del pubblico. Non a caso i Chewing-poems furono proposti in occasione della Settimana internazionale della performance svoltasi nel 1977 presso la Gam di Bologna; esibizione che contemporaneamente apriva su una delle performance più autorevoli di Marina Abramović e del suo allor sodale Ulay: Imponderabilia. Fuor di metafora il “gesto” pignottiano restituisce alla poesia (che stando alla sua etimologia significa «fare», dal greco poiéin) il suo significato originario, ai fini di riscattare i segni della realtà dall’usura comunicativa. Il «miracolo poetico» [1] di Pignotti La disamina sociale proposta da Pignotti prende le mosse dalle immagini fruste della civiltà dei consumi che una volta prelevate dal loro contesto d’origine vengono immesse in un nuovo orizzonte di senso per essere fruite come poesie. Per ragioni pratiche questo procedimento può essere schematicamente riassunto nelle fasi di decontestualizzazione, ostranenie e risemantizzazione con cui l’artista assegna una nuova funzione ai molti frammenti visivi destinati a sparire sotto «cumuli di spazzatura iconica». Se da un lato l’intervento di Pignotti affranca le immagini dalla loro iniziale carenza informativa, dall’altro ne determina l’attivazione al punto di dotarle di una nuova struttura di comunicazione; un siffatto intervento muove in direzione di un recupero estetico dei linguaggi di consumo dell’odierna macro produzione e definisce il carattere di ricerca delle acute sperimentazioni pignottiane. Occorre ricordare che per mezzo di quelle tecniche nate in seno alle Avanguardie artistiche l’Autore ha saputo dare la giusta importanza ad alcune conquiste di ordine esterico-filosofico di stampo strutturalista come il collage; in proposito valga un accenno alle serie dei: Souvenir, Zero, Living Theatre, Versus e Journal che trovano ragion d’essere proprio in suddetta tecnica. Da qui l’artista visivo (a cui storicamente spetta il ruolo di decrittare la realtà attraverso gli strumenti propri alla tradizione poetica) si ritrova ex abrupto a misurarsi con interpretazioni verbali e visive di altra natura. Tale intervento richiama il gesto con cui lo stesso Marcel Duchamp estrapolò gli oggetti dal loro contesto di appartenenza e sottrattogli il loro comune valore d’uso assegnò loro un nuovo ruolo; questo lavoro di risemantizzazione (che in Duchamp determina un mutamento di funzione dell’oggetto) è rintracciabile anche nell’opera di Pignotti. Non solo sacre icone dell’iconologia di massa
Sottratte dal loro contesto di partenza le parole si comportano come Ready-made objects, rinnovando il precedente duchampiano che a partire dal 1911 ebbe il merito di rompere i meccanismi dell’estetica tradizionale per rimettere in discussione anche il concetto convenzionale di arte. Nella fattispecie immagini destinate all’oblio subiscono una rivitalizzazione che Pignotti offre loro mediante la scrittura; per di più scrivendo le immagini l’autore dichiara implicitamente la volontà di sovrapporre l’informazione alla comunicazione. In altri termini: se posti su un supporto di “seconda mano” (come la foto ingiallita ritagliata da un quotidiano) i segni della scrittura possono determinarne l’azzeramento, dando nuova vita al materiale linguistico dissacrato dei media di massa. Da un punto di vista sociologico l’operazione poetica in questione non è stata priva di conseguenze poiché la poesia visiva si profila come una scuola di guerriglia semiologica e, in quanto comunicazione alternativa, sta tentando di superare l’impasse ideologico-culturale presente. Questo lascia sperare che il percorso di persuasione unidirezionale che muovendo dai mass media conduce alle masse, in futuro possa aprirsi in altre direzioni. All’Artista fiorentino va il merito di aver reintrodotto una dimensione critica nella ricezione passiva comunemente proposta dalle comunicazioni di massa, rivelando che nella nostra epoca anche la mera esecuzione di un’opera d’arte può di per sé costituire un’azione politica. - Marie-Regine Dongiovanni [1] R. Cirio, Versus, verso l’immagine significante, in Mostra antologica di Lamberto Pignotti, L. Pignotti (a cura di), Mantova, Edizioni del Verri, 1976, Vol. II, p. 115
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