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“Mi affascina il mistero di ciò che c’è dietro la tela”, ha sostenuto l’artista portoghese (1934-2018), facendo del proprio corpo il medium per indagare il mondo. La pratica artistica di Helena Almeida, artista portoghese nata negli anni ’30 e formatasi all’Accademia delle Belle Arti, ha incorporato gli elementi di molti linguaggi e ha così dato origine a opere di chiara poesia. La retrospettiva a lei dedicata – una mostra ‘itinerante’ tenutasi qualche anno fa prima a Porto, poi a Bruxelles e a Parigi – ripercorre tutta la sua carriera e porta infatti l’emblematico titolo di Corpus. My work is my body, my body is my work: inscindibile, quindi, il corpo dell’artista dal suo fare arte. Ecco il principio fondante delle Pintura Habitada, la serie di grandi tele fotografiche attraverso cui l’artista ha mappato il suo corpo, le sue espressioni, i suoi gesti, a partire dalla metà degli anni ‘70. Non si tratta però di autoritratti fotografici, le fotografie venivano infatti scattate dal marito, l’architetto e scultore Artur Rosa; su molti di questi scatti Almeida dipinge — con una sfumatura di azzurro che riporta subito alla mente il blu Yves Klein (“Uso il blu perché è un colore spaziale”[1]) — in modo da completare la fotografia, da schermarla, oppure da uscirne fuori, dando talvolta vita a immagini quasi paradossali, come le mani di Escher che si disegnano l’una l’altra, illusionistiche, impossibili. L’obiettivo di Almeida non era tuttavia quello di ingannare, bensì quello di mostrare con chiarezza i limiti del medium figurativo per eccellenza, la tela, e ancora di più quello di aprire la possibilità di scavalcare ogni distinzione tra diversi medium, in particolare performance, body art, fotografia, disegno (con la serie dei Desenho Habitado) e pittura. Almeida, con il marito e i figli, aveva lasciato il Portogallo all’inizio degli anni ’60 a causa della dittatura di Antonio Salazar per stabilirsi a Parigi, dove conobbe il lavoro di Lucio Fontana da cui rimase molto colpita: lo spazialismo metteva in crisi in modo evidente la bidimensionalità della tela. “Ci sono due spazi, quel bellissimo rosso e quel buco. Mi ha affascinato il lato oscuro dello squarcio. Cosa ci vuole mostrare Fontana?”[2], si chiede Almeida, iniziando lei stessa ad esporre tele ‘indossate’ (Tela rosa para vestir, 1967) e rovesciate al contrario, delle quali era visibile soltanto la struttura in legno (Senza titolo, 1968). Indossare e abitare sono i due verbi, le due azioni, che rendono evidente quanto l’arte e il corpo stesso dell’artista formassero un tutt’uno. Helena Almeida esce fuori dalla superficie bidimensionale ma al contempo è dentro di essa, ci gira intorno, come se la guardasse da tutte le angolazioni e le prospettive possibili: “Invece di rovesciare la tela [come Fontana, n.d.a.], ne sono uscita”. La gestualità dell’artista, le sue espressioni registrano il suo “esserci” nel mondo: del resto, come in tutta l’arte concettuale, l’utilizzo della fotografia assume un ruolo che non è più di semplice mediazione, di mera documentazione e rappresentazione del lavoro già fatto, quanto invece di presentazione. Il lavoro di Helena Almeida non può considerarsi strettamente femminista (alla Biennale di Venezia del 2005, in cui rappresentò il Portogallo, di sé affermò: “ho una sensibilità ermafrodita”)[3], come invece è quello di Rebecca Horn: l’artista tedesca espandeva il proprio corpo attraverso le protesi che incorporava ai suoi arti, Almeida attraverso la pittura blu: il corpo dell’artista rappresenta un corpo universale, il colore spesso le copre la faccia, nei suoi ritratti non c’è niente della sua personalità, non ci sono narcisismo e autoreferenzialità, non c’è nessuna rivendicazione. In questo senso il lavoro di Helena Almeida è allora più simile all’opera di Francesca Woodman. Alla domanda su perché fotografasse sempre sé stessa, spesso con il volto nascosto, la fotografa americana rispondeva “Perché io sono sempre disponibile”: è sempre la stessa idea, che il corpo sia il primo strumento che riesce a mediare il nostro essere al mondo. Ancor di più nelle ultime opere di Helena Almeida, più vicine alla Performance Art, si coglie come le fotografie non si limitino a mantenere e riproporre il lavoro ma ne siano parte integrante. L’opera dell’artista si fa ora più personale ed emotiva: la pittura sparisce quasi del tutto e lascia spazio ad azioni, posizioni e movimenti, più forti e stereotipati, che l’artista fotografa sempre e solo all’interno suo studio di Lisbona, diversamente dalla street performance di Adrian Piper. Lo studio che nel 1975 Almeida aveva ereditato alla morte del padre, scultore di regime, e a cui era sempre stata molto legata, diventa emblema del legame tra la figura paterna, l’artista, il resto del mondo. Così, nelle ultime opere, il blu viene sostituito dal rosso, simbolo del sangue della sorella, colpita da un tumore alla gola; il marito, da sempre figura di sfondo, diventa il soggetto di O Abraço (L’abbraccio, 2006); in ginocchio, Helena Almeida percorre il perimetro del suo studio, a cui dimostra il proprio amore (Experiência do Lugar, 2005).
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