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Cinema & New Media​

Cinema Vs Capitale – Tre casi

7/6/2020

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Il cinema degli ultimi anni pare avere ritrovato, se non una vera e propria vocazione civile, quanto meno l’interesse verso il racconto di istanze sociali urgenti. Non credo sia nata all’improvviso una nuova sensibilità, una nuova empatia verso i più deboli. Mi pare più logico pensare che alcune tendenze del sistema capitalista neoliberista in cui siamo immersi (iper-competitività, il profitto sopra a ogni cosa) siano arrivate a un punto di sclerotizzazione e di presenza nel quotidiano tali che semplicemente era impossibile non parlarne. E allora parliamone.
Quelli che seguono sono appunti sparsi su come tre film recentissimi, tutti prodotti l’anno scorso, abbiano fatto luce su alcune degenerazioni dell’economia di mercato e sull’impatto che queste hanno avuto, e hanno tuttora, sulla vita di molte persone.

La classe operaia in bilico – American Factory 
Sul catalogo di Netflix si può reperire ​Made in Usa – Una fabbrica in Ohio (titolo originale: American Factory), documentario uscito l’anno scorso (aggiudicandosi l’Oscar) che mi ha piacevolmente sorpreso. Lo scetticismo con cui ho affrontato la visione era dovuto al fatto che a produrre fosse la “Higher Grounds”, cioè la neonata casa di produzione di documentari targata Obama Family: come posso credere che il film racconti la classe operaia in modo autentico, mi domandavo, se alle spalle ha una figura così ideologicamente ingombrante come un ex presidente? Fortunatamente, la coppia di registi Steve Bognar e Julia Reichert ha smarcato elegantemente il problema decidendo di non assumere una posizione netta a priori per lasciare parlare i soggetti in campo, secondo i dettami dello stile documentaristico d’osservazione. I soggetti in questione sono gli operai della Fuyao di Dayton in Ohio, ex General Motors, chiusa in seguito alla crisi del 2008 e riaperta come fabbrica di vetri per auto grazie a ingenti investimenti cinesi. Improvvisamente, la working class del midwest si trova a condividere il luogo di lavoro con operai dagli occhi a mandorla, perlopiù uomini di trent’anni, spesso impossibilitati a portare con sé negli Stati Uniti il resto della famiglia. Scene come quella in cui l’operaio Wong posa sorridente con le pistole di un collega americano nel ranch di quest’ultimo parrebbero indirizzare il film verso una narrativa del tipo “scontro/incontro tra culture con tinte da commedia e lieto fine assicurato”. E invece, passati i mesi, la situazione si complica.
Le differenze di cultura, di condotta sul luogo di lavoro e addirittura fisiche (“Gli americani hanno le dita troppo grasse”, sentiamo dire a un certo punto) che serpeggiano sin dall’inizio tra gli operai dei diversi gruppi etnici, finiscono infatti per innescare una vera e propria battaglia tra i capannoni della Fuyao. Uno scontro che oppone la concezione di libertà individuale inculcata al popolo americano all’etica del lavoro cinese, la quale prevede il silenzio durante i turni, la devozione all’azienda e un massimo di uno o due giorni di ferie al mese. Il dirigente cinese si attende una simile disciplina dagli operai americani e, soprattutto, non contempla che la produttività della sua impresa venga intralciata da bazzecole come le organizzazioni sindacali: quando i nativi dell’Ohio cominciano a organizzarsi per far valere i loro diritti tramite le unions, la Fuyao li costringe a partecipare a incontri tri-settimanali con specialisti salariati (una spesa di qualche milione di dollari) che li convincano che il sindacato è un ostacolo per gli operai in primis. I risultati non si fanno attendere: al referendum per instituire le organizzazioni il 60% dei lavoratori vota no. E i principali attivisti pro-diritti vengono licenziati, anzi, più elegantemente, “rimossi a tempo indeterminato”.
American Factory illustra in modo limpido i passi indietro fatti negli anni post crisi del 2008 in termini di diritti dei lavoratori. I dirigenti oggi possono permettersi di chiedere più sforzo alla manodopera offrendo meno protezioni perché consapevoli che un rimpiazzo è sempre lì a portata di mano. Meglio ancora poi se il sostituto non discute le direttive, vedasi i capi-reparto americani della Fuyao messi da parte per far spazio a figure cinesi più leali, e se ha un costo ancor più contenuto. Un caso per tutti: tre settimane fa alcuni operatori sanitari di New Orleans, in sciopero perché lavoravano in mezzo alla pandemia senza adeguate misure di sicurezza, sono stati licenziati e sostituiti da detenuti del vicino carcere di Livingston, i quali, grazie a una legge dello stato della Louisiana, possono essere pagati con un compenso pari al 13% dello stipendio minimo previsto per quel lavoro.
American Factory termina con un cartello che suona come una minaccia: “Entro il 2030, a causa dell’automazione, fino a 375 milioni di persone si troveranno senza lavoro”. Se già oggi un operaio, sempre meno protetto dai sindacati, deve scegliere tra condizioni di lavoro eccessive o licenziamento, cosa ne sarà della working class quando pure questa scelta sarà diventata un lusso?
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Lo sfruttamento nella gig economy – Sorry We Missed You
La vita nella fabbrica di Dayton non è certamente una passeggiata ma gli operai, quanto meno, godono di un minimo di sistema di tutela nella forma di contratti di lavoro e assicurazioni sugli infortuni. Ci sono milioni di individui che non sono altrettanto fortunati.
Parlo di chi opera nel cosiddetto sistema della gig economy, letteralmente “economia dei lavoretti”. Il termine viene usato per riferirsi a tutte quelle prestazioni lavorative non regolarizzate da un contratto, e si esplica in figure come i freelancers o i lavoratori autonomi. Rientrano nella gig economy, per esempio, i riders che consegnano il cibo a casa o i redattori che vengono pagati “ad articolo” (una miseria). Nati come espedienti per arrotondare nel tempo lasciato libero da un’occupazione primaria, in realtà i “lavoretti” rappresentano la principale fonte di reddito per il 53% dei lavoratori nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 34 anni. In che modo questo rappresenta un problema, ce lo racconta l’inglese Ken Loach nel suo ultimo film Sorry We Missed You, presentato a Cannes l’anno scorso.
Loach, che da una vita mette in scena le persone rimaste ai margini del sistema economico inglese, racconta la storia di Ricky, padre di una famiglia di 4, con la moglie Abbie, di professione badante, e i due figli. Ricky supera di certo i 34 anni, ma gli strascichi della crisi del 2008, che ha lasciato segni particolarmente pesanti nell’impoverito nord inglese, lo costringono lo stesso a entrare nella gig economy. Perciò dà fondo agli ultimi risparmi, vende l’auto che la moglie usa per andare a trovare i suoi anziani assistiti e scommette tutto sull’acquisto di un furgone con il quale può impiegarsi come corriere indipendente. Il suo capo insiste sulla retorica “Be your own boss” e sventola la bandiera della mitica flessibilità. Niente turni e niente orari fissi, decidi tu quanto lavorare. Ma una volta accettata una consegna, è richiesta la massima puntualità. Un paio di sgarri e sei fuori.
L’occhio onniveggente che vigila sull’operato di Ricky è un’app di tracciamento che detta i tempi di consegna e che non può essere spenta. Ciò che il protagonista, però, scoprirà a sue spese è che quell’applicazione comincia a dettare i ritmi della sua vita. Il lavoro del corriere funziona a cottimo, come nelle miniere dell’Ottocento, perciò più consegne accetti, più lavori e più guadagni. E all’improvviso, pur di non fermarti neanche un minuto, ti trovi a fare pipì in una bottiglia di plastica. Sembravano lontanissimi i tempi in cui il Chaplin di Tempi Moderni impazziva nel tentativo di stare al passo con la macchina-lavoro, ma rieccoci qua: Ricky non può fermare gli ingranaggi del lavoretto a cui ha prestato corpo e sangue. Il debito del furgone deve essere ripagato e le multe per i ritardi evitate. In un simile sistema la famiglia che si sfalda progressivamente diventa solo un imprevisto sulla tabella di marcia, e nessun tipo di infortunio ha il tempo per essere curato. Conta solo andare avanti e continuare a correre nella ruota del criceto.
Guardare Sorry We Missed You è un’esperienza che ti mette a contatto con una nuova forma di para-schiavismo dei nostri tempi, cooptata dalle nuove possibilità del digitale. Chi se lo può permettere delega a terzi qualunque tipo di mansione non sia ritenuta degna del proprio tempo, preziosissimo, che può e deve essere impegnato in attività ben più produttive dell’andare a ritirare la pizza di persona. Si direbbe che il tempo ha una sua valuta, oscillante e diseguale a seconda del potere economico del singolo individuo: per ogni Signor Rossi che risparmia la mezz’ora per andare al negozio a ritirare il proprio acquisto, c’è un Ricky che lavora col suo furgone 14 ore al giorno.
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Gentrification e perdita di identità – The Last Black Man in San Francisco
I processi di gentrificazione, cioè le “riqualificazioni” di quartieri a estrazione popolare con conseguente insediamento di una fascia di popolazione più abbiente, sono fenomeni che tocchiamo con mano, e in misura sempre crescente, in ogni città italiana. Da nord a sud, dal quartiere NoLo di Milano, ex periferia ora area cool di hub creative, ai Sassi di Matera, oggi sede di alberghi bio-chic, e qualche decennio fa grotte insalubri vettrici di malattie. La gentrification diventa problematica quando, come nel caso dell’ex capitale della cultura europea, interessa le aree più pittoresche dei centri storici delle città, quei quartieri così unici e autentici dove frotte di turisti e ricchi annoiati smaniano di insediarsi. Per approfittare del trend, i locatari aumentano allora i prezzi d’affitto, i “negozietti sotto casa” cedono il posto ad attività più al passo coi tempi (e più costose) e le agenzie come Airbnb tentano di accaparrarsi le location più instagrammabili. Nel giro di poco, l’area diventa troppo esclusiva per gli abitanti “autoctoni”, spesso insediati da generazioni e generazioni e ora costretti a vendere le loro case di famiglia per trasferirsi altrove. Paradossalmente, centri storici il cui appeal si basa sull’autenticità, vedono i propri abitanti originari lasciare il posto a nuovi arrivati più o meno consci della storia del luogo.
Il cinema degli ultimi anni sembra tenere ben presenti le dinamiche di gentrificazione e la perdita di unicità delle città del mondo. Queste si notano, ad esempio, in The Farewell (Lulu Wang, 2019), dove lo spaesamento culturale del ritorno in Cina da parte di Billi, ormai perfettamente integrata nel sistema di valori americano, passa anche per l’osservazione degli inarrestabili mutamenti architettonici del paese, con la sua rincorsa alla modernità che non lascia spazio alle tradizioni. O in Aquarius (Kleber Mendonça Filho, 2016), pellicola che narra, tra l’altro, gli sforzi della sessantenne Clara di difendere dagli speculatori immobiliari la casa dove sono contenuti i ricordi di tutta la sua vita.
Simili istanze sono affrontate da The Last Black Man in San Francisco, film del 2019 diretto da Joe Talbot. Il prologo del film apre con quello che potrebbe essere un manifesto anti-gentrification: primi piani di elementi architettonici di una casa vittoriana alternati a parti del corpo del protagonista Jimmie, con gli occhi che si sovrappongono alle finestre, il sudore sulla pelle alle gocce d’acqua sui muri. Come a dire, casa non è solo legno e fondamenta, ma è soprattutto la storia umana che ospita. Al ventenne afroamericano Jimmie quella casa pittoresca appartiene moralmente, suo nonno la costruì dopo la seconda guerra mondiale e suo padre la perse negli anni 90, ma non fisicamente in quanto è stata acquistata da una coppia di sessantottardi bianchi che non le sa prestare le dovute cure. Jimmie, in compagnia dell’amico Montgomery, non può fare altro che fare piccoli ritocchi di nascosto dai proprietari, e guardarsi le spalle dagli sguardi sospettosi del vicinato. Già perché la sua famiglia nel tempo non solo è stata cacciata dalla casa, ma da tutto lo storico quartiere, divenuto terreno di caccia di agenzie immobiliari per ricchi caucasici e playground per giri turistici a bordo di segway. Talbot ci racconta una San Francisco che ha scordato la propria storia e si è svenduta al capitale, con i suoi iconici tram affittati per feste alcoliche al servizio di annoiati vacanzieri.
La città del Golden Gate è diventata negli anni la più costosa degli Stati Uniti. Non sembra una coincidenza, quindi, che la comunità nera qui sia andata sempre più restringendosi arrivando oggi a costituire solo il 5% della popolazione. La città americana un tempo faro di libertà e tolleranza sta diventando ostile ad alcuni dei suoi abitanti più longevi. Montgomery, che lavora al mercato del pesce, è convinto che persino le acque della baia stiano diventando tossiche e giura di vedere pesci con quattro occhi e gabbiani con peni umani.
“In the city of facades, remember your truth”, raccomanda uno squattrinato predicatore nei primi minuti del film. Nella San Francisco dei nostri giorni, ma potrebbe essere Venezia, Roma o Firenze, Beijing o Rio de Janeiro, difendere le radici della propria truth vuol dire ingaggiare una lotta contro un leviatano. E l’unica soluzione che il cinema ha sinora saputo dare è quella di legare alla propria casa centinaia di palloncini e volarsene via.
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Michele Rodolfi 
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