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Cinema & New Media​

Come Ari Aster pensa l’horror

22/3/2020

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In queste giornate nelle quali è bene e raccomandabile rimanere in casa per contribuire al ridimensionamento della grave crisi sanitaria che il nostro paese sta vivendo, si cerca inevitabilmente di occupare il tempo che abbiamo a disposizione. Tra i vari svaghi il cinema occupa ovviamente una posizione rilevante e ho avuto così modo, ed il piacere, di recuperare due film horror che mi colpirono molto quando uscirono in sala e che hanno riacceso delle riflessioni interessanti per quanto riguarda lo sviluppo del genere in questi anni, ovvero “Hereditary” e “Midsommar”.  
Cerchiamo di alleggerire un po' la mente ripercorrendo la breve filmografia di Ari Aster e analizzando i motivi che hanno portato il giovane regista a riservarsi molto presto lo statuto di autore, e se non avete ancora visto i film, beh, è una buona occasione per farlo.
 
Il regista statunitense si è sin da subito fatto notare per la peculiarità delle trame e del trattamento che esse hanno all’interno delle proprie opere. Hereditary si incentra per larga parte sulla psicologia dei personaggi e sembra voler offrire allo spettatore la responsabilità di decidere cosa ci sia di vero in ciò che sta guardando. Midsommar, probabilmente un prodotto più maturo, si presenta come una vera e propria esperienza audiovisiva dall’impatto emotivo molto forte. Due film costruiti e sviluppati in maniera diversa ma che trovano un’unione nelle tematiche che trasportano.
Le vicende della famiglia Graham alle prese con un lutto e conseguenti fenomeni paranormali collegati ad esso, sono al centro del racconto del primo lungometraggio di Aster, datato 2018, che riscosse molto successo. Nel secondo invece seguiamo il viaggio all’interno di una comunità dalle usanze “distintive” di una giovane ragazza alle prese con una forte depressione dovuta alla perdita dei propri parenti. 

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​La visione del cineasta New Yorkese verte decisamente nell’analizzare e approfondire le dinamiche relazionali che si vengono a creare all’interno di famiglie disfunzionali dalle quali riesce ad estrapolare i significati più sinistri e le sensazioni più disturbanti. Le famiglie, i rapporti più stretti, sono luoghi di riparo, nella quale ci sentiamo sicuri, compresi ed accettati. Il perturbante si manifesta proprio quando il familiare cessa di esserlo, quando la casa che tanto conosciamo diventa incomprensibile e pericolosa, ed è il momento nella quale le nostre debolezze devono confrontarsi a nudo con una realtà ostile. L’horror per Ari Aster, deve parlare di questioni esistenziali e di dinamiche che circondano ogni individuo quotidianamente, sia per quanto riguarda le famiglie che ci vengono “imposte” sin dalla nascita, sia per quanto riguarda quelle alla quale scegliamo di appartenere. In Hereditary assistiamo ad una veloce spirale di follia che avvolge i Graham, alle prese con la morte di due membri del proprio nucleo. La madre Annie (Toni Collette) cade in un profondo disturbo mentale e non viene più compresa né dal marito, dalla quale si allontana, né dal figlio, con il quale matura in fretta un rapporto molto combattivo, frutto di questioni irrisolte del passato. Dani in “Midsommar” risulta essere un peso per il fidanzato che non trova il coraggio di lasciarla, e solo nella comunità del villaggio (la famiglia che viene scelta) ella può trovare sollievo alla sua depressione, che nel finale sembra sfociare in una agghiacciante presa di coscienza del proprio squilibrio. Le famiglie di Aster sono attaccate da problematiche relazionali che mettono in mostra la fallacità dei rapporti umani. Se in “Hereditary” i membri non riescono ad uscire da una situazione di crisi in “Midsommar” la coppia vive tra non detti e compromessi che rendono i personaggi insofferenti e sempre più inclini al distacco. Distacco che viene seguito attraverso il punto di vista dei personaggi femminili che assumono il ruolo di protagoniste indiscusse e delle quali seguiamo costantemente l’evoluzione interiore. Esse non riescono ad uscire dai loro dolori e sviluppano sempre maggiormente i propri disturbi fino a venirne totalmente inghiottite. L’unico sollievo viene portato dalle comunità nelle quali riescono finalmente a sentirsi capite e soddisfatte. La comunità vince sull’individuo, che viene trascinato all’interno delle regole (scritte e non) che ordinano la quotidianità dei loro seguaci. Dani e Annie inoltre hanno in comune molti aspetti: rivelano principalmente i loro disturbi dopo aver subito pesanti perdite, e ancor prima vivono nelle incertezze radicate all’interno dei loro nuclei familiari. Entrambe subiscono una sconfitta morale che assume il tono di una rinascita spirituale, al servizio del gruppo al quale si sono definitivamente aggregate. 
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​I racconti di Aster si allontanano dagli stereotipi dell’horror più comune che vediamo di frequente in sala e preferiscono mostrare maggiormente le conseguenze delle azioni più cruente più che le azioni stesse per fornire allo spettatore un impatto emotivo potente e per consentirgli di empatizzare con i personaggi della vicenda. Evidenti (e ammesse dallo stesso autore) le ispirazioni personali che hanno contribuito alla costruzione delle sceneggiature; note autobiografiche che possono essere colte dallo spettatore più attento.
Le atmosfere contribuiscono notevolmente all’immersione del pubblico in sala. Se “Hereditary” appare più convenzionale, ed è comprensibile essendo un’opera prima, “Midsommar” è decisamente la manifestazione delle reali volontà del regista. Un horror atipico e che sposta l’orrore delle tenebre sotto i raggi solari, rendendo il risultato non solo affascinante ma notevolmente efficace. Le tensioni della storia rimangono nascoste in bella vista e le atrocità vengono mostrare senza filtri da una regia pulita, perfettamente geometrica, che non vuole celare nulla all’occhio dello spettatore. La paura, nel senso più generale, è intrinseca allo spettatore, è la somma di sentimenti ansiogeni che aleggiano per tutta la durata delle pellicole e che non vengono mai soddisfatte dagli elementi più basilari del genere (Jump Scare, sfruttamento della componente sonora e così via) ma che si prolungano anche dopo la visione, producendo riflessioni su ciò che si è appena visto. Il regista riesce a chiudere i personaggi nella vastità delle ambientazioni, creando un contrasto visivo caratteristico del suo cinema, colmo di campi larghi e primi piani e fatto di segni e simbologie che riempiono le scenografie spesso anticipando gli eventi futuri.
È difficile quindi non considerare questo giovane ragazzo un autore vero e proprio, data la spigliata capacità di veicolare nelle sue opere messaggi che sono portatori delle sue stesse suggestioni sul mondo in cui viviamo e che sono in grado di parlare a tutti noi universalmente. Attingere dalla propria esperienza per realizzare opere per un vasto pubblico rendono il lavoro di Aster estremamente differente dal resto delle proposte e lo immettono direttamente nella lista delle personalità che stanno contribuendo a modificare in meglio un genere che negli ultimi tempi si è fin troppo amalgamato. Mi riferisco ad autori come Jordan Peele (Us, Get Out), Robert Eggers (The VVitch, The Lighthouse), Jennifer Kent (Babadook) e altri autori che stanno cercando di realizzare una rinascita dell’horror, quello delle sensazioni tetre e ansiose, che non punta a spaventare banalmente lo spettatore ma mira ad inquietarlo nel profondo, sotto ogni punto di vista.
 
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Federico Tocci 
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