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Un punto (in)stabile nella marea (im)mobile. Analisi e interpretazione senza spoiler di "The Lighthouse" (2019)

26/2/2020

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The Lighthouse è l'ultimo riverbero dell'eco perpetua propagatasi nella cultura occidentale, artistica in generale e del fantastique in particolare, da quando Edgar Allan Poe pensò bene di traumatizzarla per sempre attraverso i suoi stessi incubi: nei propri racconti avrebbe decretato come quegli incubi “personali” della mente umana fossero in realtà “universali”, dal momento che la loro origine «si estende oltre lo spazio e il tempo», come recita la sua poesia Dream-Land (1844) che in tal senso veniva riferita alla poetica dell'autore già da H. P. Lovecraft in Supernatural Horror in Literature (1927). Nella propria pellicola Robert Eggers ha infuso proprio l'alienazione dell'essere umano in questo inquietante schema cosmico, e lo ha fatto con una potenza tale da recuperare, se non rincarare, l'iniziale debito verso l'opera dello scrittore di Boston, dovuto all'ispirazione inizialmente perseguita dal fratello Max (poi divenuto co-sceneggiatore) nei confronti di una brevissima bozza di un racconto incompiuto: postumamente denominato “The Lighthouse” e cominciato da Poe poco prima della sua dipartita, esso è una riprova dell'influenza detenuta da ogni suo più infinitesimale rigurgito artistico, dal momento che già era stata oggetto di un altrettanto libero adattamento cinematografico, The Lighthouse Keeper (2016) di Benjamin Cooper, e diverse rielaborazioni e completamenti, tra cui spicca quello effettuato da Robert Bloch nel 1969 (I miti di Cthulhu, Fanucci, 1977).
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Il film di Eggers si ambienta sull'isola di un faro al largo della North-East Coast americana (patria tanto di Poe, quanto di Lovecraft e dello stesso Eggers), sul finire del XIX secolo e narra l'isolamento condottovi per settimane dal bisbetico custode incartapecorito, Willem Dafoe, e dal suo nevrotico assistente in erba, Robert Pattinson: le oscure pulsioni e le recondite paranoie di entrambi verranno pressurizzate dal predominio “kammerspieliano” degli interni, e angustiati dallo squadrato ratio “anni '20” in 1:19:1 e fotografati dal fedele Jarin Blaschke in un bianco e nero che esaspera le tese imperfezioni dei volti, spesso protagonisti di lunghi e allucinati monologhi; una pressione destinata ad implodere sotto il peso dell'immenso ambiente circostante, quando una tempesta taglierà definitivamente i ponti con la terraferma. Questa destabilizzante collisione tra la schiacciante vastità del mare e l'infinitesimale restrizione del faro era pure all'origine dell'inquietudine di tutte le storie - Manoscritto trovato in una bottiglia (MS. found in a bottle; 1832), Arthur Gordon Pym (The narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket; 1837), Una discesa nel Maelström (A Descent into the Maelström; 1841) - da Poe ambientate su insignificanti relitti alla mercè dei capricci della natura onnipotente, dove il “sovrannaturale” aveva libero accesso.
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Non è un caso che la pellicola citi in calce, come una delle fonti di riferimento utilizzate per riprodurre il frasario dei marinai del New England, proprio Herman Melville, che con Poe aveva tra gli altri debiti quello del vocabolo danese-olandese Maelström; tuttavia, è ironico notare come il celeberrimo capitano Achab, direttamente citato anche nel film, venga spesso associato al “sublime dinamico” teorizzato da Immanuel Kant ne La critica del giudizio (1790): nella pellicola il confronto con «l'apparente onnipotenza della natura» non risveglia affatto la forza interiore dei personaggi, ma la annienta, scatenando in loro un machista e grottesco astio reciproco e sfogandone la libido repressa in atteggiamenti vagamente omoerotici, copulazioni con fantasmatiche sirene “anatomicamente corrette” e con la stessa lanterna del faro. In particolare, il personaggio di Pattinson svilupperà un'ossessione per il (fallico) lume cui Dafoe non gli consente l'accesso, un'ossessione che verrà contestualizzata proprio da un trauma vissuto fra delle altrettanto “onnipotenti” distese boschive del Canada, come insegnava un altro maestro del cosmic horror, Algernon Blackwood, nel Wendigo (1917); questo spiegherebbe la brutale avversione dell'apprendista verso i gabbiani dell'isola, la cui bianchezza, che spicca nella pellicola come quella di Moby Dick nel romanzo di Melville, ne sottolinea la natura “sovrannaturale”, già profetizzata dalla Ballata del vecchio marinaio (1798) di Samuel Taylor Coleridge, proprio come farà poi il custode stesso col monito “bad luck to kill a sea bird”.
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Infatti, se un opera come The VVitch (2016) discuteva della relatività del male (alla protagonista non restava altra scelta che diventare una strega), The Lighthouse discute della relatività delle coordinate spazio-temporali (che un faro incarna per definizione), attraverso un'accuratissima ricostruzione storica simile, anche se paradossale, al predecessore ed attraverso la comune importanza che in entrambi detengono gli animali. Del resto, essi sono il punto di contatto con quella natura selvaggia che «ha un effetto profondo, e non sempre positivo, su coloro che vi risiedono», come Jean De Crèvecœur descrisse i boschi abitati dai primi padri pellegrini in Letters from an American Farmer (1782), e sia il caprone nero Black Philip che i gabbiani del faro sono simboli superstiziosi dello stesso folklore “senza tempo” della Nuova Inghilterra: è una mise en abyme dove la vita imita l'arte e l'arte la vita, come anche quando non distinguendo più la realtà dalla finzione nelle visioni di Pattinson, simili agli orrori marini descritti da William Hope Hodgson, potrebbe pur sempre tornare alla mente che l'omonimia dei protagonisti di The Lighthouse si rifà ad avvenimenti realmente accaduti (o forse realmente “inventati”) su un faro al largo delle coste del Galles ai primi dell'800.
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Questi “incubi senza tempo” trovano una potentissima rappresentazione nel sound design di Mark Korven (pure già collaboratore di Eggers in The VVitch), che costruisce l'angosciante mood della pellicola attraverso l'incessante suono della sirena “anti-nebbia” del faro, ovattata durante le visioni di Pattinson a indicarne il distacco dalla realtà; ma pure attraverso il suono prodotto dagli ingranaggi della caldaia: entrambe sonorità ritmiche che riflettono quella medesima ripetizione potenzialmente infinita, sebbene costante e controllata, del giro che la lanterna, al centro delle brame prometeiche e miltoniane del personaggio, compie su sé stessa. Secondo questa mia identificazione di un nietzeschiano “eterno ritorno” nella lanterna dalle lenti “concentriche”, essa potrebbe aver istillato una corrosiva “volontà di potenza” nei personaggi, e ciò avrebbe un'interessante conferma nello sciabordio ritmico, presente nella primissima sequenza del film, prodotto dalla nave che i due guardano allontanarsi, in un controcampo frontale, rivolti alla macchina da presa; una rottura della quarta parete quasi a suggerire un distanziamento tra quella regolarizzazione temporale che governa il nostro mondo reale, da cui il giovane e il vecchio, ovvero passato e futuro, vengono abbandonati («forgotten to any time» dirà Dafoe in uno strabiliante monologo).
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Le contraddizioni che si generano a causa dell'incipiente follia del giovane assistente, o del tentativo del vecchio custode di aizzarla attraverso le menzogne, riguardano proprio la percezione del tempo trascorso sull'isola, e porteranno a una disastrosa conclusione finale riecheggiante un altro racconto di Poe, La sepoltura prematura (The Premature Burial; 1844). Il tutto avrà significativamente inizio proprio quando un Pattinson esasperato distruggerà il martellante orologio a muro, sancendo il dominio definitivo della propria instabilità mentale, o del proprio “tempo della coscienza”,
sull'apparente immutevolezza delle cose, o dell'immobile “sublime matematico”; ormai ha ammesso il suo vero nome ed il proprio passato, non potendo più sfuggire alla «mutua penetrazione che costituisce la durata reale», per dirla come Henry Bergson, ovvero la stratificazione temporale che non possiamo intaccare, né spazializzare. Ed è interessante notare che uno dei cortometraggi con cui Eggers si è fatto le ossa era proprio un adattamento de Il cuore rivelatore (The Tell-Tale Hearth; 1843) di Poe, celeberrima storia sulle conseguenze di un insopportabile suono ritmico, frutto di una percezione alterata del narratore ma che pare alterare la realtà stessa, nel racconto del suo crescente desiderio di sopraffazione su di un più “anziano” avversario.
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Restringendo il campo all'iconografia prettamente visiva della pellicola, voglio aggiungere ai vari collegamenti con la mitologia greca, già fatti da altri a sufficienza, il dipinto Hypnosis (1904) di Sascha Schneider, letteralmente ridipinto dal chiaroscurale 35 millimetri di una maestosa inquadratura. Il dipinto non solo sintetizza la relazione tra i due personaggi e il faro, ma si riflette pure in uno speculare letterario ravvisabile nel racconto di H. P Lovecraft, Hypnos (1923), dove due reclusi abusano di sostanze stupefacenti alla ricerca di una conoscenza proibita (stavolta direttamente legata al dio greco del sonno); queste similitudini non sono probabilmente volute, ma non è invece un caso che il linguaggio filmico della pellicola, dibattendosi con le ristrettezze del formato, riproduca perfettamente un (frustrato) senso di “proiezione verso l'alto”, attraverso l'impiego di rappresentazioni visive di linearità o fughe prospettiche come scale (a chiocciola e a
pioli) o colonne che bisecano l'inquadratura, o come movimenti di macchina perfettamente lineari qualora non siano (come primi piani dei monologhi) “staticamente” asserviti nel seguire l'azione dei personaggi: in un caso si ha perfino una sorprendente rotazione di un'inquadratura del “concentrico” faro. Peraltro, questo avviene all'interno di uno stesso paesaggio brumoso e costiero come quello che inspirava la ricerca “latitudinale” del protagonista de La casa misteriosa lassù nella nebbia (The Strange House High in the Mist; 1927), sempre di Lovecraft, a riprova della probabile connessione di tutte queste suggestioni “ipnotiche” e “atmosferiche” al sapiente utilizzo dei medesimi paesaggi, naturali e mentali, della Nuova Inghilterra.
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Il tutto, come abbiamo visto, espresso attraverso un linguaggio da cinema classico, decisamente poco manicheo e derivativo, ma che anzi mostra una forte proprietà intuitiva e reinterpretativa: tempo fa Eggers annoverò La stregoneria attraverso i secoli (Häxan; 1922) tra i suoi film horror preferiti in un'intervista rilasciata su Bloody Disgusting (curiosamente il film era uno dei pochi apprezzati da Lovecraft), e a ben pensarci le due opere del regista si configurano proprio come una scissione della sostanza, esoterica in The VVitch, e della forma, semidocumentaristica in The
Lighthouse
, di questa pellicola con cui solo in apparenza detiene meno debiti rispetto a quelle di grandi cineasti come Dreyer, Murnau, Lang e Bergman; cosicché, per chi scrive, The Lighthouse si configura esso stesso come un artistico Proteo (figura risaputamente evocata dal personaggio di Dafoe), le cui innumerevoli chiavi di lettura sono motivate dalla sua stilisticamente armoniosa e coerente natura all'insegna dell'evocativo folklore, nautico e non, della “vecchia” Nuova Inghilterra.
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- Donato Martiello
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