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Gender Studies & Queer Culture

Esperienze migratorie al femminile: come rompere il silenzio?

24/4/2020

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La questione migratoria è tutt’oggi fondamentale nello scenario internazionale. Le immagini prodotte dai mass media, i dibattiti in materia, gli scontri politici ne sono un esempio lampante. Il genere può essere considerato un dispositivo socioculturale di dominio, utilizzato dal potere per filtrare lo sguardo dell’individuo sull’universo dei sessi. Inoltre, il genere, come concetto socio-culturale in continua evoluzione, ma anche come concetto relazionale tra uomo e donna, mascolinità e femminilità, ha ripercussioni significative non solo sulle donne, ma anche sugli uomini. Detto questo, però, si riscontrano notevoli difficoltà nell’interpretazione delle statistiche, non sempre particolarmente accurate, vista la tendenza ad amalgamare donne e bambini in un’unica categoria, quella delle persone vulnerabili.
Lo studio del fenomeno non è poi così semplice, sia per la diversità delle situazioni in essere, sia per il numero degli attori coinvolti. Non è l’essere donna l’unico fattore ad influenzare le esperienze migratorie al femminile. Ve ne sono, infatti, molti altri tra loro interconnessi quali la classe, la razza, l’età o l’orientamento sessuale: proprio per questo, il genere non è un dato unico e la donna non è un singolare immutabile. Essere consapevoli della complessità ci permette di evitare generalizzazioni, di contestualizzare e non essenzializzare in virtù di una comune identità femminile (Freedman, 2015, p. 13). Il mondo della ricerca sulle migrazioni non di rado ha considerato le donne al fianco del proprio partner maschile, in una posizione secondaria, e mostrato scarso interesse per le loro soggettività. Relazioni di genere e strutture di potere però giocano un ruolo fondamentale nel processo migratorio. La studiosa franco-britannica Jane Freedman, in Gendering the international asylum and refugee debate, lo espone nel dettaglio. Secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, il termine rifugiato si riferisce a:
«chiunque, […] nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.»
Foto
Marie Dorigny, Displaced, Women in exile, 2015-2016
​Intraprendere un viaggio, via mare o via terra, non è però così scontato. In alcune aree del mondo, notevoli difficoltà, soprattutto per le donne, legate all’impossibilità di vivere e viaggiare da sole o di lavorare al di fuori dell’ambiente domestico, rendono la decisione di affrontare un viaggio su lunghe distanze non semplice. Un’ulteriore barriera, essenzialmente connessa a quella lavorativa, è l’indipendenza economica e, di conseguenza, l’impossibilità di pagare il viaggio – spesso estenuante e in più tappe. La paura degli abusi sessuali ma anche la concreta esposizione al rischio, sia nel paese d’origine che in quello di transito o d’arrivo, è un altro fattore d’interesse. Ma perché le donne migrano? Il CEDAW – Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women – definisce le persecuzioni specifiche di genere come dirette contro le donne perché donne o che riguardano le donne in maniera particolare. Le persecuzioni legate al genere, invece, riguardano sempre le donne perché donne, ma possono indicare anche atti persecutori che assumono una determinata forma proprio perché la vittima è una donna. Alcune delle persecuzioni subite vengono classificate come ‘’pratiche tradizionali dannose’’ (ad esempio, le mutilazioni genitali femminili o i matrimoni forzati). Ancora, sulla base della costruzione culturale dei generi e dei ruoli di genere, la violenza subita può esprimersi nel controllo, da parte di alcuni regimi, dei corpi delle donne attraverso gravidanze forzate o politiche non efficaci rispetto ad un accesso adeguato a contraccettivi e aborto. Inoltre, l’esistenza di leggi persecutorie che istituzionalizzano l’ineguaglianza di genere mette in serio pericolo coloro che non vi si conformano. In più, la violenza domestica è tuttora un fenomeno universale anche se, in alcuni casi, scarsamente documentato. Gli atti persecutori legati all’orientamento sessuale sono un altro esempio di violenza perpetrata per la non-conformità alle norme dominanti di mascolinità o femminilità. In particolare, atti persecutori contro donne lesbiche prendono la forma di stupri ‘’correttivi’’, matrimoni forzati, abusi di vario genere (Freedman, p. 52 e ss., 2015). 
Foto
Marie Dorigny, Displaced, Women in exile, 2015-2016
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La critica femminista ha così evidenziato le problematiche del discorso liberale sulla divisione tra sfera pubblica e sfera privata. Problematiche che investono alcune forme specifiche di persecuzione legate al genere spesso considerate irrilevanti proprio perché ‘private’. In questo caso, per esempio, il tema della violenza domestica è emblematico, in quanto percepito, in una presunta scala di gravità, un gradino più in basso rispetto ad altri tipi di violenza ‘pubblica’. Lo stesso discorso può esser fatto per lo stupro, la cui normalizzazione lo relega ad una questione privata tra individui. Le conseguenze di una violenza fisica, così come di una violenza psicologica, possono essere particolarmente traumatiche, data la sempre più frequente colpevolizzazione della vittima, spesso rifiutata dalla sua stessa famiglia o comunità. Questa condizione comporta una lunga serie di problemi nelle richieste d’asilo, non solo per la paura e il senso di responsabilità, ma anche per le difficoltà comunicative in un ambiente talvolta ostile (Freedman, p. 60 e ss., 2015).
È necessario a questo punto fare alcune osservazioni: generalizzare non ha nulla di neutrale. La considerazione delle donne migranti come vittime da proteggere, anche in virtù della loro provenienza, le relega in una situazione di subalternità e controllo anche in situazioni più vulnerabili. Su questo concetto, si poggia un altro ragionamento: ci riferiamo soprattutto a quei discorsi fortemente etnocentrici che tendono a rafforzare le differenze tra ‘’noi’’ e ‘’loro’’, tra violenze perpetrate qui in Occidente e violenze perpetrate altrove (legate, nella rappresentazione comune, a caratteristiche culturali e sociali immutabili). Inoltre, la costruzione delle donne come vittime da proteggere rischia di non considerare a pieno le persecuzioni di genere o legate al genere, questo perché da un lato essenzializza le loro esperienze, dall’altro annulla la voce delle donne stesse, indagando poco sulle reali cause delle ineguaglianze di genere (Freedman, p. 128 e ss., 2015).
L’immaginario collettivo quindi si lega spesso alla visione di donne vulnerabili e sofferenti. In qualche modo, questa costruzione permette alle istituzioni di entrare nelle loro sfere di intimità (Pinelli, 2017, pp. 155-86). In un certo senso, il tentativo costante di categorizzare – soprattutto in quest’epoca – non permette di comprendere a pieno quanto accade, spesso rinforzando le strutture di potere esistenti e le ineguaglianze. In questo scenario, ‘’the best people to know how to move beyond stereotyped representations are the women refugees and asylum seekers themselves. […] We need to give asylum-seeking and refugee women back their voice’’ (Freedman, 2015, p. 220).

Rossella Valentino


Bibliografia:
FREEDMAN J., Gendering the International Asylum and Refugee Debate, Basingstoke, New York, Palgrave Macmillan, 2015.
PINELLI B., Salvare le rifugiate: gerarchie di razza e di genere nel controllo umanitario delle sfere d’intimità, in C. Mattalucci (a cura), Antropologia e riproduzione. Attese, fratture e ricomposizioni della procreazione e della genitorialità in Italia. Libreria Cortina, Milano.

Foto
Sara Federico, I do not need nobody
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