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Gender Studies & Queer Culture

Il male gaze e le sue ripercussioni nel cinema lesbico

28/12/2020

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Discutendo di due film che che hanno ricevuto particolare attenzione al momento della loro uscita, La vita di Adele e Ritratto della giovane in fiamme, cosa possiamo capire del male gaze?
Foto
Still da "Ritratto della Giovane in Fiamme" Céline Sciamma, 2019
Il male gaze, traducibile come “sguardo maschile”, è un termine coniato dalla critica cinematografica femminista Laura Mulvey nel suo saggio del 1975 Visual Pleasures and Narrative Cinema. Con esso si fa riferimento all’atto di raccontare l’universo femminile da una prospettiva maschile ed eterosessuale in cui la donna subisce un’oggettificazione, divenendo fonte di piacere per l’uomo-spettatore.
La sessualità femminile è stata fin dall’antichità rinchiusa all’interno di una dicotomia riassumibile nel cosiddetto madonna-whore complex: lì dove la whore (“puttana”) utilizza proprio il potere sessuale per dominare e manipolare l’uomo (si pensi ad una Sharon Stone in Basic Instinct), la madonna incarna l’immagine della pura castità, della donna di casa e della moglie-madre caratterizzata da passività e docilità. Entrambe le figure sono al contempo ricercate e colpevolizzate dall’uomo. Un modello, questo, che viene riprodotto sul grande schermo, dove anche personaggi femminili apparentemente complessi e tridimensionali sono in realtà proiezioni dell’inconscio maschile che riflettono il desiderio del regista e vengono imposte al pubblico.
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Ma in che modo questo fenomeno si ripercuote sulla narrazione delle relazioni lesbiche nelle pellicole cinematografiche?
Per quanto possa sembrare un problema di poco conto, alcune scelte registiche contribuiscono alla stigmatizzazione della sessualità lesbica, descritta come dipendente da un desiderio maschile che vi vede un prodotto creato per soddisfare le proprie pulsioni voyeuristiche. Questo tipo di immaginario crea importanti difficoltà a giovani ragazze o donne che vedono il proprio orientamento sessuale feticizzato nella vita reale e sentono la mancanza di una rappresentazione normale. Quale donna gay non si è mai scontrata con questi stereotipi?

Per proporre un esempio di male gaze nel cinema si potrebbe analizzare brevemente La Vita di Adele, film francese vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2013, diretto dal regista Abdellatif Kechiche e tratto dalla graphic novel Il Blu è un Colore Caldo di Julie Maroh. La pellicola è incentrata sulla scoperta della sessualità di Adele, dell’amore giovane e tormentato per Emma e dell’intensa relazione tra le due. 
Delle tre lunghe ore di film, tuttavia, ciò che rimane più impresso non è la veridicità di un sentimento profondo o l’insicurezza scaturita da un’epifania sessuale, ma gli eterni minuti di crude e quasi esasperanti scene erotiche e di nudità femminile chiaramente pensate da e per il male gaze. Al momento dell’uscita, queste sono state oggetto di polemiche, alimentate dalla testimonianza delle attrici, che hanno raccontato le condizioni umilianti alle quali erano state sottoposte per compiacere una visione registica che voleva essere estremamente “realistica”. Questi commenti sono purtroppo passati in sordina, in un momento in cui il mondo cinematografico non era ancora stato scosso dal movimento #Metoo e per le donne risultava più difficile denunciare gli abusi senza subire ripercussioni sulla propria carriera.
Anche Julie Maroh, autrice della graphic novel, ha espresso il suo profondo dissenso al riguardo discutendone in un post sul suo blog, Coeurs-forêts:


“Questo è quello che penso: è stata una rappresentazione brutale e chirurgica, esagerata e fredda, del cosiddetto sesso lesbico, che è diventato pornografia e mi ha fatto sentire molto a disagio.”
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Still da "La Vie d'Adèle" Abdellatif Kechiche, 2013
Una visione, quella di Kechiche, che snatura dunque l’essenza della storia di Adele ed Emma: un rapporto estremamente umano, delicato nella sua fragilità e dolceamaro nella sua concretezza viene filtrato da un occhio maschile e patriarcale.
Non mancano, fortunatamente, esempi di female gaze. La distorsione della rappresentazione lesbica ne La Vita di Adele, in effetti, risulta ancora più appariscente se messa a confronto con il recente Ritratto della Giovane in Fiamme, vincitore per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes del 2019. Il film, anch’esso francese, è questa volta scritto e diretto da una donna, Céline Sciamma. 
La netta differenza tra le due prospettive registiche è subito visibile: nella storia di Héloïse e Marianne, una giovane promessa sposa e una pittrice sullo sfondo della Francia del XVII secolo, sono gli sguardi – e non i corpi - a dominare lo schermo. I dialoghi, fugaci eppure densi di poesia e nostalgia per una realtà impossibile, interrompono brevemente il silenzio all’interno di scenografie che sembrano evocate dalla tela di un artista. 
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Sia fisicamente che metaforicamente, il maschile è pressoché assente: nessun uomo compare sulla scena. Unica eccezione è il futuro marito di Héloïse, minaccia evanescente di un mondo oppressivo che lascia ad Héloïse la sola opzione del matrimonio. La realtà sembra divenire un limbo, un luogo fuori dal tempo e dallo spazio che, come un richiamo opaco al topos dell’isola utopica, rappresenta una sorta di locus amoenus delle amanti. Nell’unico spazio in cui è permesso essere sé stesse, l’amore è scandito dalla musica (l’imperante Estate di Vivaldi) e dalla poesia di Ovidio. Il rapporto sessuale, avvolto in candide lenzuola, non viene esasperatamente accentuato per consegnarlo allo sguardo avido dell’uomo-spettatore, ma è parte intima ed espressione di un rapporto profondo che non trova nell’atto erotico il suo fine. I sentimenti di Héloïse e Marianne sono già un ricordo che, impresso in una pagina, una sinfonia o un ritratto, si fa simbolo; un amore intenso che, essendo già perduto, diviene quasi divino.
Foto
Still da "Ritratto della Giovane in Fiamme" Céline Sciamma, 2019
Non si tratta, allora, di aspirare all’eliminazione di qualsiasi riferimento sessuale, né di presentare un amore “casto”, ai limiti del platonico. Ciò che si auspica è invece la resa cinematografica dello sguardo femminile; la possibilità di proporre una sessualità lesbica che, senza scadere nel voyeurismo, si immerga in una dimensione reale e nelle emozioni tangibili intraviste, ad esempio, in Carol di Todd Haynes. ​
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Still da "Carol" Todd Haynes, 2015
Questo tipo di rappresentazione, non contaminata da un occhio esterno maschile, potrebbe indicare un punto di partenza per pensare dei rapporti che vadano al di là dell’eteronormatività e che trovino in sé stessi la propria essenza. Si potrà allora iniziare a intendere un mondo in cui la narrazione dell’amore lesbico non è costruita attorno al desiderio esterno nè riproduce stereotipi delegittimanti, ma trova le sue fondamenta nella passione che unisce le amanti, che non devono dimostrare nulla a nessuno perché il loro sentimento sia ritenuto reale e venga pienamente accettato.

- Chiara Roccaro
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