Il tema del sessismo linguistico, ovvero dell’orientamento “androcentrico” della lingua, è da diversi anni al centro di dibattiti infervorati (e non solo in Italia). Con l’espressione sessismo linguistico si fa riferimento alla nozione di linguistic sexism, elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio. Soffermandoci sul settore italiano, un testo fondamentale per approcciare a questo aspetto è Il sessismo nella lingua italiana, a cura di Alma Sabatini – linguista, saggista e femminista italiana novecentesca – promosso dalla presidenza del Consiglio. La Sabatini si sofferma, all’inizio, su alcune constatazioni: parlare di fratellanza delle nazioni, chiedere quanti fratelli ha una persona – anche se si intendono fratelli di entrambi i sessi – o scegliere di vivere in una città a misura d’uomo, sono modi che ci riconducono a una visione del mondo concepita secondo un’ottica maschile. I casi in cui avviene il contrario, invece, sono molto rari: quando diciamo a un politico che è una prima donna, non stiamo mettendo in dubbio la sua virilità, ma sottolineiamo in maniera ironica il suo desiderio di porsi al centro dell’attenzione, gratificandosene – tratto tipico, secondo il sentire comune, di una donna. Cercando di tracciare una linea del tempo nella quale siano presenti i cambiamenti fatti in questi anni, è possibile riscontrare molte variazioni rispetto al passato. Per prima cosa c’è stato il superamento della «segnalazione dissimmetrica di donne e uomini nel campo politico», mediante il cognome per gli uomini, e il cognome preceduto dall’articolo per le donne (la Thatcher); oppure mediante il primo nome per la donna e il cognome per l’uomo. Nell’ambito giornalistico, oggi, il vezzo di adoperare il primo nome per i personaggi di rilievo pubblico sembra equamente diffuso per i due sessi. C’è poi da notare il regresso del titolo di signorina per le donne nubili – si usa ormai signora/signorina semplicemente in base all’età – e parallela rivendicazione, per le donne sposate, del cognome di origine, che sempre più spesso viene usato da solo, senza quello del marito. Se questa prima riflessione che abbiamo portato avanti ci è risultata semplice, tutt’altro avviene per i titoli e i nomi professionali in genere. - I suffissi - In ambiti sociali e lavorativi, nei quali ormai la donna è radicata da tempo, si sono affermati alcuni femminili variamente formati. Innanzitutto è da ricordare il suffisso in –essa, come ad esempio avviene con dottoressa, professoressa e anche studentessa. Tranne che in pochi casi ormai stabilizzati, però, questo suffisso può avere una connotazione ironica, o comunque negativa. Un altro tratto importante da ricordare è la trasformazione del suffisso –iere in –iera, come possiamo vedere nei casi di cameriera, infermiera, parrucchiera. Un ulteriore cambiamento sta nella marcatura femminile di nomi epiceni, cioè con forma invariabile per maschile e femminile: la preside, la pediatra, la vigile (accanto al persistente vigilessa), la farmacista, ecc. La scelta, in questi casi, non è tanto linguistica, quanto socioculturale, perché dal punto di vista grammaticale l’ingegnera e la soldata sono forme corrette e se ci sembrano strane, o agrammaticali, è solo perché non siamo abituati a sentirle. In molti casi sono le donne stesse, quando ricoprono dei ruoli importanti in professioni tendenzialmente svolte da uomini, a preferire il maschile, in quanto indicante la funzione svolta, indipendentemente dal sesso di chi la esercita. «Eliminerei ministra» – dichiarò tempo fa Stefania Prestigiacomo, ministro per le Pari opportunità, in un gioco giornalistico che chiedeva agli intervistati di abolire una parola particolarmente invisa. «Suona male ed è accompagnata da una sottile ironia che sembra indicarla come un incidente della politica» [«Corr. Sera - Magazine», 14.10.2004]. Tra il ministro Prestigiacomo e la ministra Prestigiacomo c’è chi si rifugia in un compromesso, grammaticalmente infelice: sostantivo maschile e articolo femminile. - I dizionari - Non è certamente facile, in assenza di indagini specifiche sulla frequenza delle forme concorrenti in àmbito scritto e parlato (avvocato/avvocatessa) cercare qualche verifica nell’uso reale. L’unico mezzo che possiamo utilizzare, con tutta la cautela del caso, è Internet, ma ancora meglio è consultare i dizionari. Il Garzanti è il più favorevole a considerare i femminili regolari pienamente acclimati nell’uso: chirurga, magistrata, medica, sindaca, soldata sono registrati senza marche d’uso o commenti di sorta; solo architetta si dice «non comune». Il De Mauro è quello più restìo: magistrata, medica, sindaca e soldata vengono marcati con «raro»; ministra è considerata di uso «spregiativo» o «scherzoso», architetta «scherzoso»; quanto a chirurga – connotata con AU “di alto uso” evidentemente per un refuso – c’è solo un rinvio a chirurgo. Volendo guardare anche agli altri dizionari, lo Zingarelli si avvicina più al Garzanti, Sabatini-Coletti e Devoto-Oli assomigliano più al De Mauro. Il dato saliente, però, è che ogni dizionario va per la sua strada. - Considerazioni finali - La lingua è in continua evoluzione, e soprattutto l’ambito del lessico è particolarmente sensibile ai cambiamenti del tempo, dato che è più facile inserire tra i vocaboli d’uso delle nuove parole piuttosto che cambiare gli aspetti morfologici o sintattici della lingua. Ritornare alla lingua, quindi, è la chiave per iniziare, come auspicava Audre Lorde – femminista, lesbica, nera e socialista - a «smantellare la casa del padrone» in un modo che sia finalmente stabile e duraturo. Se è vero, quindi, che «gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone»[1], occorre educare le persone alla conoscenza della propria storia e delle proprie responsabilità: è essenziale creare nuovi strumenti per smantellare e demolire la casa di un padrone che ci sta rendendo schiavi dell'ignoranza. Nell’ambito del discorso in cui Audre Lorde ha utilizzato originariamente la frase sopra citata, lo scopo non era soltanto quello di criticare il patriarcato, ma anche prendere di mira ciò che lei definiva “femminismo razzista”. Sottolineando come si trovasse spesso ad essere invitata a partecipare a conferenze femministe in quanto donna di colore, unica tra molte donne bianche che avevano lasciato altre donne di colore a prendersi cura dei loro figli mentre si trovavano alla conferenza, commentò «Perché gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone. Ci possono permettere di batterlo temporaneamente al suo stesso gioco, ma non ci metteranno mai in condizione di attuare un vero cambiamento».[2] [1] https://collectiveliberation.org/wp-content/uploads/2013/01/Lorde_The_Masters_Tools.pdf. [2] Questa frase è stata pronunciata per la prima volta nel 1984. Ludovica Bernazza
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