La prospettiva femminista si è assicurata un posto in tanti campi della riflessione intellettuale, ma il suo ingresso nello studio della musica è stato abbastanza tardivo. La principale ragione di questo ritardo è la convinzione che la musica sia autonoma: secondo questa opinione, la musica in sé e le sue componenti socio-culturali sono separate da un divario ontologico incolmabile. In questo senso, la teoria e le critiche femministe sarebbero dei tentativi di politicizzare qualcosa che è naturalmente a-politico, e di inscrivere delle dinamiche di genere e di potere in un luogo nel quale semplicemente non possono stare: in sequenze astratte e autonome di suoni musicali. Ammettere che le questioni di genere sono rilevanti per lo studio della musica vorrebbe dire sminuire la sua integrità, compromettendo così la caratteristica musicale più rassicurante: la capacità di tenerci a distanza da tutti gli elementi che ci turbano nel mondo. La “vera” teoria musicale si dovrebbe quindi limitare alle note, ai suoni, e lasciare la speculazione extra-musicale agli antropologi, ai sociologi, e agli psicologi. Visto che questo tipo di convinzioni è direttamente ascrivibile al pensiero dicotomico che la teoria femminista si propone di modificare, non è affatto sorprendente che il femminismo abbia incontrato spesso della resistenza nella riflessione musicale, e che sia stato caratterizzato come una moda passeggera. Ebbene, anche se fosse una moda passeggera, le questioni che solleva non lo sono affatto e, anzi, la peculiarità della prospettiva femminista è che permette di avanzare ipotesi nuove nella riflessione intorno a problematiche che assillano l’umanità da millenni, almeno dalla Grecia antica. Quella che segue vuole essere una breve rassegna del pensiero femminista sulla musica che si è sviluppato negli ultimi anni del secolo scorso. La musa matriarcale Secondo i punti fondamentali della teoria di Heide Göttner-Abendroth, nelle antiche società matriarcali, l’arte era una pratica olistica, estatica e magica; era erotica, sensuale, spontanea e concreta; ed era collegata strettamente con la realtà di tutti i giorni. Al contrario, l’arte patriarcale era razionale, astratta, e gerarchica, al servizio per l’appunto del potere patriarcale. All’interno delle pratiche musicali, questa dicotomia si manifesta nella divisione tra musica seria e popolare, artistica e folkloristica, razionale e sensuale, elitaria e di massa: ognuna di queste opposizioni deriva dal fondamentale sospetto che l’ordine stabilito del patriarcato prova nei confronti della magia, della sensualità, e dell’erotismo. Persino la musica folkloristica, che rappresenta l’ultimo rimasuglio del matriarcato ancestrale, è stata trasformata, sotto l’influenza patriarcale, in un prodotto commerciale e triviale, riprodotto e distribuito su scale massificate, privato di spiritualità, vitalità erotica, e in ultima istanza del suo significato. Secondo Göttner-Abendroth, “the ancient meanings of art […] have entirely evaporated. The absence of content, the yawning emptiness of meaning, engendered by the tedium of arbitrary interpretability, are now merely evil in an extravagant intellectual apparatus[1]” (Göttner-Abendroth, 1991, p. 21). Poiché le donne non hanno avuto la possibilità di esprimersi nella riflessione sulla musica, né tantomeno nella sua produzione, le donne che operano all’interno del mondo musicale devono negoziare con delle strutture istituzionali create, e per la maggior parte controllate, dagli uomini; devono attenersi a delle restrizioni che distorcono le loro voci; e devono sottoporre il loro contributo al giudizio di norme inappropriate per valutare l’esperienza delle donne in quanto tali. Infatti, le pratiche musicali nella società patriarcale sono conformi a regole e valori stabiliti dalla soppressione e dalla domesticazione della musa matriarcale. [1] Gli antichi significati dell’arte […] sono completamente evaporati. L’assenza di contenuto, la stanca vacuità del significato, causata dal tedio dell’interpretabilità arbitraria, non sono ormai che un un male in un apparato intellettuale stravagante. La prima donna tra minaccia e desiderio Uno dei racconti di E.T.A. Hoffman, “Il consigliere Krespel” (1818) tratta di un giovane musicista tedesco, Krespel, che ha conquistato una famosa cantante d’opera italiana, Angela. In un episodio della novella Angela rompe il violino di Krespel perché rivaleggia con lei nel conquistare l’attenzione del suo amante, e Krespel, esasperato, lancia la sua amata cantante fuori dalla finestra. Di per sé, una trama di questo genere si presta ad essere indagata secondo una prospettiva di genere, ma la questione diventa ancora più interessante se si prende in considerazione, come ha fatto Heather Hadlock, la trasposizione operistica nei Racconti di Hoffmann (1881) di Jacques Offenbach. Se prendiamo il gesto di Krespel come un tentativo di mettere un freno al carattere di una prima donna chiaramente tipizzata, ci rendiamo conto che questo tentativo di esorcizzarlo e contenerlo finisce in un fallimento nell’opera di Offenbach. In questo adattamento, infatti, la sua presenza sconfina oltre l’atto ispirato da “Il consigliere Krespel”, il terzo: in ogni atto, tranne che nel primo, la donna è l’oggetto del desiderio del protagonista, ma si rivela una fonte di turbamento. Hadlock commenta: “the opera’s climax confirms the irresistible and subversive authority of the woman singer”[1] (Hadlock, 1994, p. 229), che era stata invece neutralizzata da Hoffman per mezzo di un simbolico lancio dalla finestra. La prima donna, quindi, può essere silenziata nell’immaginazione poetica e nella sua finzione, ma l’opera riscrive la novella di Hoffmann e permette al soprano di sopravvivere. In questo senso, la persistenza del canto della prima donna sottolinea la difficoltà della sua controparte maschile nel contenerla e nel confinarla, rendendo chiaro in ultima analisi che la cantante non deve la sua ragion d’essere all’artista che pretende di controllarla. [1] Il culmine dell’opera conferma l’irresistibile e sovversiva autorità della cantante donna. La critica della performance La performance di musica classica è solitamente basata sull’apprendimento e sulla messa in pratica di norme di comportamento precise, sia da parte degli interpreti sia da parte degli ascoltatori. Dal lato degli interpreti, questi possono considerare le loro performance come il risultato di un percorso interpretativo personale e autonomo. Tuttavia, esse sono piuttosto una costruzione culturale codificata, risultato di un percorso di formazione approfondito. Nelle parole di Suzanne Cusick, “We might imagine the feelings we express to be our own, but all the ways we would know to shape a piece ‘musically’ would express feelings that had originated somewhere else, in someone else[1]” (Cusick, 1994, p. 87). Un’interpretazione musicale espressiva, quindi, dev’essere prima di tutto un atto di obbedienza o di sottomissione finalizzata ad esternare l’espressione del compositore: il corpo dell’interprete diventa così un surrogato per la voce del compositore. Cusick continua, “The composer’s invasion of my body, to which I submit, makes me a medium (in both senses of the word)[2]” (Cusick, 1994, p. 91). Di questi due sensi, con il primo si intende il ruolo dell’interprete come mezzo dell’espressione, mentre con il secondo si fa riferimento alla sensazione sminuente che deriva dalla sottomissione ad un’autorità esterna, alla trasmissione riduttiva in una copia di un’originale autentico. Questa messa in scena di obbedienza e sottomissione che accompagna il piacere della fruizione musicale è tutt’altro che benigna, soprattutto per le donne. Poiché la donna nella società patriarcale deve essere sempre pronta alla sottomissione, la performance musicale dell’obbedienza e dell’annientamento individuale è fonte di un doppio disagio per le donne: prima di tutto perché il loro stato subalterno nella società patriarcale le costringe continuamente a molteplici performance di abnegazione non musicale; e in secondo luogo, perché la bellezza della musica fa sì che la performance sia fonte di piacere. Anche dal lato degli ascoltatori, questo tipo di performance musicale richiede una negazione di sé. E Cusick aggiunge: “The mistaken belief in a relationship original : copy is part of the ideology I believe classical music performance is meant to uphold[3]” (Ibid.). [1] Possiamo immaginare che i sentimenti che esprimiamo siano i nostri, ma tutti i modi che conosciamo per modellare ‘musicalmente’ un pezzo esprimeranno dei sentimenti la cui origine si trova da un’altra parte, in qualcun altro. [2] L’invasione del mio corpo da parte del compositore, alla quale mi sottometto, mi rende un mezzo (nei due sensi della parola). [3] L’affermazione erronea della relazione originale-copia è parte dell’ideologia che, secondo me, la performance della musica classica cerca di perpetuare. Tirando le somme La critica femminista quindi, motivata dalla convinzione che l’integrazione delle donne nel canone musicale sia soltanto un modo di palliare i sintomi piuttosto che di approfondire le cause della loro assenza tradizionale, si è avventurata sempre più in profondità nell’esplorazione delle relazioni tra genere e musica. Eppure, più si è avvicinata alla musica ‘pura’, più ha incontrato resistenza. Probabilmente, l’ostacolo più ostinato che si prospetta davanti alla critica femminista è l’argomento secondo il quale i valori fondamentali della musica sono intrinseci, completamente indipendenti da fattori extra-musicali, e soprattutto da questioni socioculturali come il genere o il potere. Infatti, mentre la critica sulle rappresentazioni stereotipiche della donna nelle trame operistiche viene generalmente accettata, le questioni che sono alla base delle preoccupazioni femministe continuano a essere considerate extramusicali, e quindi non pertinenti. Conseguentemente, finché il valore musicale continuerà a essere considerato assoluto, autonomo, inviolabile dalla realtà esterna, la critica femminista si troverà la strada sbarrata. Bibliografia Heide Göttner-Abendroth. The Dancing Goddess: Principles of a Matriarchal Aesthetics, trans. Maureen T. Krause (Boston: Beacon Press, 1991). Heather Hadlock. “Return of the Repressed: The Prima Donna from Hoffman’s ‘Tales’ to Offenbach’s ‘Contes’”, in Cambridge Opera Journal, vol. 6, n. 3 (Novembre, 1994), p. 221-243. Suzanne G. Cusick. “Gender and the Cultural Work of a Classical Music Performance”, in Repercussions 3:1 (Primavera 1994): 77-110. Per una panoramica dello stato della critica musicale femminista, di cui questo articolo non è che uno spaccato, v. Wayne D. Bowman. “Contemporary Pluralist Perspectives”, in Philosophical Perspectives on Music. Oxford University Press, 1998, p. 356-407. Lucia Pasini
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