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Gender Studies & Queer Culture

Revenge Porn

5/4/2020

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“Le colpe dei padri ricadono sui figli” recita un celebre motivo omerico e, con l’eleganza e la prontezza dei classici, esso fa eco nelle nostre menti, ricevendo l’impulso delle vicende con le quali ci scontriamo ogni giorno. Queste parole risuonano forti nella mia mente, soprattutto negli ultimi giorni, da quando è uscita fuori una vicenda riguardante la circolazione di immagini di ragazze minorenni all’interno di un gruppo telegram, nato a partire dall’iniziativa di alcuni ragazzi e uomini adulti. Il gruppo in questione - che certo non è l’unico esistente, ma che è sicuramente il più numeroso - contenente più di 40.000 membri, e denunciato in massa dagli utenti, si chiama “Stupro tua sorella 2.0”.  Tutto questo ha un nome, si chiama Revenge Porn, è un reato, è grave, è un fenomeno diffuso dappertutto, ed è un problema che va risolto. Prima di andare oltre concentriamoci su queste tre parole. La parola “stupro” è una parola insidiosa, si cerca di non utilizzarla, si trovano sinonimi o altri modi per definire quella stessa violenza. Lo stupratore spesso non è consapevole di essere tale, e anzi molte volte condanna lo stupro: ciò che lui commette è sempre qualcosa di diverso. Allo stesso modo, la stessa difficoltà nell’usare questa parola la troviamo nelle donne che sono state stuprate, perché anche in questo caso si cerca di definire in un altro modo quello che si è vissuto, usando delle parole come “aggredita”, “raggirata”. È importante, invece, che lo stupro venga chiamato come tale, e che lo stupratore prenda coscienza di sé, perché altrimenti continuiamo a giustificare questo fenomeno. “Tua sorella” anche questo è un motivo ricorrente: ci basti pensare a quando negli insulti, non necessariamente sessisti, lo diciamo per offendere qualcuno con cui stiamo discutendo. Povere sorelle, su cui ricadono le colpe dei padri, ma anche dei fratelli. Non c’è da sorprendersi, in fin dei conti lo stupro esiste da quando esiste l’uomo, è una vera e propria arma usata in guerra, e oggi, come ieri, è un’arma per la virilizzazione del branco. Ci troviamo davanti a una vera e propria “cultura dello stupro”. Quest’idea trova la sua prima definizione nel documentario Rape Culture, opera del 1975 prodotta da Maragret Lazarus e Renner Wunderlich, che descrive come il cinema, la musica, e altre forme d’arte e di intrattenimento rappresentano lo stupro. Patricia Donat e John D’Emilio hanno suggerito che l’espressione “cultura dello stupro” ha origine nel libro del 1975 Against Our Will: Men, Women, and Rape di Susan Brownmiller, sotto il nome però di “cultura solidale con lo stupro”, ed è proprio qui che il cambiamento è evidente: si passa dall’attestazione di un fenomeno che esiste alla sua protezione e tutela. In questo processo i social network hanno avuto, e continuano ad avere, un ruolo di primaria importanza, perché sappiamo tutti che dire una cosa sul web non è la stessa cosa che dirla di persona – sebbene tanti pareri e idee che girano in rete abbiano un peso tanto quanto le parole che sentiamo dal vivo – ma l’anonimato rende il tutto più facile, perché fornisce quella apparente protezione che, in questo discorso, gioca un ruolo preponderante.
Tornando al gruppo telegram, possiamo leggere cose come:
Foto

In sintesi, in questo gruppo, che in seguito alle segnalazioni è stato chiuso, girano offese alle madri degli altri, ci sono incitazioni allo stupro, alla violenza, al femminicidio, all’omofobia, alla transfobia, alla pedofilia, alla circolazione di immagini pedopornografiche, insomma ce n’è per tutti i gusti. Internet è il paese dei balocchi per queste persone, perché consente loro di far finta di essere l’uomo forte e muscoloso che ha tutte le donne che vuole, consente di dire tutto ciò che non si direbbe mai nella vita reale davanti a una ragazza. Il problema è che questi eventi causano traumi, portano persone a suicidarsi, come nel caso di Tiziana Cantone, morta in seguito alla diffusione di suo materiale pornografico amatoriale. Al contrario di altre situazioni, nelle quali si cerca di vedere anche l’altra faccia della medaglia – quella dell’operato delle ragazze in questo caso – per questa vicenda la controparte non è affatto rilevante, ed è importante sottolinearlo. Non è colpa delle ragazze che mandano delle loro foto al fidanzato, o che le mettono su un social, perché qui non si sta parlando di foto private scambiate all’interno di una coppia, si sta parlando di materiale pornografico pubblicato senza consenso. Una situazione nella quale non esiste consenso non può, per sua natura, essere una scelta libera.
Cosa c’entra, però, il motivo omerico, punto dal quale siamo partiti, con la depravazione di questi uomini?
Dobbiamo capire quali sono i padri che hanno queste colpe, perché sicuramente una parte la si può ricercare nel nucleo familiare, nei padri – intesi come genitori – veri e propri, ma tutt’altre possono essere le radici di questi pensieri. Chi sono i padri colpevoli di tutto ciò? Padre è lo Stato che non tutela le sue figlie dalla violenza, che non consente loro di denunciare in modo sicuro; Padre è la società che normalizza lo stupro, e che insegna che la colpa è delle donne che si mettono le gonne troppo corte; Padre è l’educazione che ci viene data, che non insegna alle donne a dire di no, che non spiega agli uomini il valore del consenso. Padri sono i media che continuano a trasmettere contenuti sessisti, misogini, irrispettosi nei confronti delle donne, che propongono il mito del macho opprimente e oppressivo.
Il consenso deve diventare una battaglia che prendiamo tutti a cuore, perché senza consenso non c’è libertà, senza libertà non c’è scelta, e senza scelta si diventa schiavi, vittime e carnefici. La gravità di un gesto come questo non si esaurisce certo nella chiusura del gruppo telegram perché il problema è culturale, è radicato. La cultura “solidale” con lo stupro è proprio questo. Occorre smettere di normalizzare ciò che è un reato, facendolo passare come una bravata di poco conto; questa notizia  non deve sfumare tra qualche giorno, perché la “vita reale” di questi individui continua anche fuori da quel social, questa violenza verrà portata fuori da una tastiera, e anche nel caso in cui questa dovesse sfociare in un femminicidio, ciò non basterà a farci cambiare davanti a un fenomeno del genere. Omero ci aveva visto lungo, e forse – anzi, sicuramente – è venuto il momento di porre fine all’eco di queste parole, perché, se dobbiamo imparare dalla storia, e Ovidio ce lo insegna, l’Eco è solo causa di sventure.

​Ludovica Bernazza
Foto
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